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venerdì 14 novembre 2008


È un’analisi sommaria, per categorie, di due libri venduti nell’ultimo periodo: l’esordio di Paolo Giordano e il capitolo conclusivo della carriera di Oriana Fallaci, posti l’uno accanto all’altro in un confronto senza conflitto e che non incoronerà un vincitore, o forse non uno solo. 
A ben vedere i due libri, sono tutt’altro che due perdenti e le vendite lo testimoniano ma sono diversi, molto diversi tra loro per natura e per una serie di caratteristiche che li contraddistinguono e che caratterizzano i loro autori. 
D’esordio, il primo (come i suoi numeri), il romanzo del Dott. Paolo Giordano che ha vinto il Premio Strega, battendo (tra i tanti) la ragnatela di ricordi di Napoli Ferrovia di Ermanno Rea e ha venduto: molto. Bravo, Giordano: tanto di cappello! Senza togliere troppo a quello pieno di ciliegie della Fallaci. 
Postumo, l’altro: una saga -come scrisse lei stessa sul frontespizio del manoscritto- familiare: zii, nonni, arcavoli… tutti i genitori della Fallaci che diventano suoi figli, nel momento in cui «la realtà» prende «a scivolare nell’immaginazione» e la scrittrice dà vita a quei personaggi che la diedero a lei: il tema della nascita anche non-nascita («corsi il rischio più atroce che possa capitare a chi ama la vita e pur di viverla è pronto a subirne tutte le catastrofiche conseguenze: il rischio di non nascere»), quello del destino e la paura della morte nella fiaba delle famiglie Fallaci, Launaro, Cantini, Ferrier e mentre… la Storia che passa, nell’ultima, e forse la prima, delle fiabe della Fallaci. Fiaba che per la sorella Paola sarebbe stata meglio riposta nel cassetto, e che per qualche critico rappresenta invece la più giusta delle conclusioni per la carriera di scrittrice della Fallaci. 
Grandi i numeri delle vendite del romanzo di Giordano, e grandi pure quelli del romanzo postumo della Fallaci: una tiratura complessiva del volume che arriva a mezzo milione di copie e tre edizioni in tre giorni e più di ottocento mila libri venduti per l’altro. Lettori affezionati nel caso del poderoso romanzo, per mole, per quantità di pagine, della scrittrice fiorentina; lettori nuovi nel caso dello scrittore della mole: il torinese Giordano. Se nel caso della Fallaci è il nome che vende, è il marchio, è la denominazione Fallaci, anche ortografica se vogliamo (D.O.F. Denominazione Ortografica Fallaci): è un cappello pieno di ciliege, badate bene, non ciliegie: «senza la “i” e che nessuno s’azzardi a fare la correzione. N-e-s-s-u-n-o. Sono stata chiara?». Guai a contraddirla. 
Per quanto riguarda Giordano, invece, nessuna firma nota e poi è proprio l’assenza di un marchio vero e proprio, forse, la chiave del suo successo: si è parlato di uno stile non-stile. Della lingua del romanzo, che essenzialmente, appartiene all’ultima tendenza della narrativa contemporanea: il cosiddetto traduttese. Romanzo pacato e composto, quello di Giordano. 
Conoscere di persona Paolo Giordano (al Festivaletteratura, ndr) e avere il piacere di scambiare qualche battuta e poi riprendere in mano il suo libro ti fa dire: «sì, è proprio quello scrittore con cui ho parlato poco fa». L’essere e lo scrivere di Giordano si somigliano: a vederlo è pacatamente brillante, come la sua scrittura; corretto, come la sua lingua. 
Con garbo, educatamente, racconta di due numeri primi «soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero». 
Torniamo alla Storia della Fallaci: a differenza di quella di Giordano è verbosa. In Giordano: una storia. Nella Fallaci: la Storia. Una Storia alla Fallaci certo e forse, a pensarci bene, troppe storie. Tante storie giustapposte che un po’ annoiano, forse troppi romanzi in un romanzo: una Storia fatta di interminabili storie. 
Il lavoro di una «formica impazzita dalla fretta di accumular cibo» corsa «a rovistare tra gli archivi, i mastri anagrafici, i catasti onciari, i cabrei, gli Status Animarum» che inizia a scrivere il suo romanzo documentato. 
In 823 pagine, fai in tempo a cambiare opinione un sacco di volte e non sai se il libro ti sia piaciuto o no; ma definirlo un’arcavolata, con sbilanciamento più che sugli arcavoli sulla cavolata, forse è irrispettoso. Un po’ t’appassioni e decidi che Caterina Zani ti sta simpatica, che Anastasia ti affascina, e un po’ ti annoi: troppe storie Oriana, troppe storie. 
Giordano vende, Giordano piace, invece, e il romanzo scorre fluido: senza esitazioni. Merito proprio di quella scelta linguistica forse: semplificazione sintattica e banalità lessicali; interpunzioni medie inesistenti; dominio della paratassi. Una ricetta vincente, semplice e genuina. 
Non un’analisi o un’apologia della diversità, semplicemente una storia raccontata con un linguaggio misurato e matematico: il bacio che Mattia dovrebbe dare ad Alice diventa «una banale sequenza di vettori»; l’affetto tra Mattia e suo padre resiste «diluito lungo centinaia di chilometri di cavi coassiali». Immagini alla Giordano, immagini metà fisiche (mai metafisiche) e metà traduttesi; immagini senza troppi riflessi e senza troppe ombre. Non ci sono particolari speculazioni, non ci sono risvolti psicologici. È scientificamente pervaso dalla volontà di dimenticare le essenze ma comunicarti le affezioni, cioè quelle cose che si possono cogliere senza ambiguità, tutto narrato con semplicità e precisione. 
Solo piccole massime (medie?) che di tanto in tanto alzano Giordano una spanna sul tono generale della narrazione: «Ormai l’aveva imparato. Le scelte si fanno in pochi secondi e si scontano per il tempo restante»; qualche tirata romantica: «perché lei e Mattia erano uniti da un filo elastico e invisibile, un filo che poteva esistere soltanto fra due come loro: due che avevano riconosciuto la propria solitudine l’uno nell’altra»; qualche metafora ingenua ma sincera. 
Due libri diversi, molto diversi, quasi agli antipodi l’uno rispetto all’altro ma che sugli scaffali delle librerie non hanno dato modo alla polvere di depositarsi sulle loro copertine. 
tamara