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venerdì 31 dicembre 2010

mia recensione a Bambini Bonsai, num. 2 de La Libellula, rivista di italianistica on line

Paolo ZanottiBambini bonsaiMilano, Ponte Alle Grazie, 2010, pp. 229, € 17,00
Il bello delle parole è che possono voler dire molte cose ma in fondo significano proprio quello che sono e, allora, i bambini di Zanotti sono bonsai proprio perché – come le piante giapponesi – crescono in un vaso: bonsai vuol dire per metà ‘vaso’, ‘contenitore’, per metà ‘coltivare’, ‘educare’. Viaggiano tra sognato e reale e si confondono in una realtà sognante che ha, a tratti, l’odore alcolico di una «grappa di carrubo» (p. 27) che potrebbe richiamare il sogno indefinito dell’essenza di finocchio dei Fiori Blu di Queneau. Il protagonista di questa storia è un bambino, Pepe, che partendo dall’agglomerato (il riciclato cimitero monumentale di Staglieno, a Genova), dove vive con un padre mezzo uomo mezzo cyborg e una madre andalusa (bella e volubile), ripercorre il racconto di un’esperienza e recupera quel mondo perduto – che è l’infanzia – in un mondo ormai perduto davvero perché stravolto dai cambiamenti climatici. Chiamati da una pioggia che ha valore iniziatico, è libertà, desiderio di conoscenza e d’avventura, i bambini – di solito alle prese con un sole rovente – si muovono un po’ come pirati, ormai senza mare, con gli adulti che compaiono come figure secondarie e come figure-altre: «li pensavo lontanissimi, perché si sa che per i bambini gli adulti appartengono a un altro spazio, a un altro tempo, insieme agli stegosauri e agli iguanodonti» (p. 35).

continua a leggerla qui: 
http://www.lalibellulaitalianistica.it/blog/?page_id=1005#_Zanotti

Ora (il link rimanda al nuovo numero della rivista. Ecco la recensione):


Bambini bonsai, Paolo Zanotti, Milano, Ponte Alle Grazie, 2010, pp. 229, euro 17,00.

Il bello delle parole è che possono voler dire molte cose ma in fondo significano proprio quello che sono e, allora, i bambini di Zanotti sono bonsai proprio perché – come le piante giapponesi – crescono in un vaso: bonsai vuol dire per metà vaso, contenitore; per metà coltivare, educare. Viaggiano tra sognato e reale e si confondono in una realtà sognante che ha, a tratti, l’odore alcolico di una «grappa di carrubo» (p. 27) che potrebbe richiamare il sogno indefinito dell’essenza di finocchio dei Fiori Blu di Queneau.
Il protagonista di questa storia è un bambino, Pepe, che partendo dall’agglomerato (il riciclato cimitero monumentale di Staglieno, a Genova), dove vive con un padre mezzo uomo mezzo cyborg e una madre andalusa (bella e volubile), ripercorre il racconto di un’esperienza e recupera quel mondo perduto – che è l’infanzia – in un mondo ormai perduto davvero perché stravolto dai cambiamenti climatici.
Chiamati da una pioggia che ha valore iniziatico, è libertà, desiderio di conoscenza e d’avventura, i bambini – di solito alle prese con un sole rovente – si muovono un po’ come pirati, ormai senza mare, con gli adulti che compaiono come figure secondarie e come figure-altre: «li pensavo lontanissimi, perché si sa che per i bambini gli adulti appartengono a un altro spazio, a un altro tempo, insieme agli stegosauri e agli iguanodonti» (p. 35).
Tempi e spazi perduti fanno da sfondo alla storia dei Bambini bonsai, con luoghi che sono corpo e che inghiottono – come l’oblio – se è vero che i cancelli hanno «le fauci» (p. 87) e che i rumori rimbombano in una «smisurata volta toracica di asfalto e cemento» (p. 94), in un mondo finito che divora perché non cessa mai di finire.
La vicenda narrata è consegnata a una scrittura tonda, mite, senza spigoli; l’autore scrive con uno stile che è frutto di cure meticolose, senso estetico e pazienza, tutt’altro che provvisorio, posato e pesato, mai pesante. La sintassi fluida, l’apparato lessicale piuttosto ampio e tradizionale sono funzionali a una scrittura intesa come la bellezza che riordina il caos e il terrore che in realtà racconta: «è un’illusione pensare che una barriera di azzurro simulato basti a proteggerci dagli sconquassi che avvengono là fuori» (p. 13).
Il romanzo stesso potrebbe essere un bonsai, forse nello specifico, un bonsai litterati: si dice che siano quelli più eleganti e che simulino un albero nato in un luogo scomodo, per esempio un luogo spesso colpito da fulmini o eventi atmosferici.
O ancora potrebbe essere un mondo non più mondo, in cui si vive in quello che un tempo era un cimitero, solo uomini e statue, solo uomini e pietre, senza animali. Gli animali, infatti, sopravvivono solo nelle tante similitudini a effetto, ferine e spesso specificamente feline: «mentre in realtà è elettrico e teso come la diffidenza dei gatti» (p. 12); «mi adescò come si fa con il soriano pulcioso ma fiero» (p. 32) o in qualche metafora usata da Zanotti che caratterizza i suoi personaggi, le azioni e le situazioni col piglio di un appassionato biologo (biologo di una vita che non c’è più): «non più tricheco ma bradipo si aggrappava alla poltrona del nostro soggiorno» (p. 27); «raggiunsi la casa quasi in volo, falco pellegrino in picchiata orizzontale mi tuffai dentro» (p. 80); «avanzammo con la sicurezza rettilinea della scolopendra che punta la fessura» (p. 104).
Il mondo animale è ormai solo retorica e ha lasciato spazio a quello inanimato dei monumenti funebri, spogliati della malinconia, con la morte stessa che non fa più paura, o almeno non come un tempo: «era come se non fossi interessato, o trovassi che il fatto di vivere in un cimitero ci esimesse dal morire» (p. 43), per un lutto ormai ri-elaborato, che ospita vita ma che in un caso resta specificamente perdita, continua a far male, quando Pepe trova, tra le tante statue, quella degli «innamorati» (p.42), perché forse quella è qualcosa che non muore mai, neanche quando non c’è più.
Eppure la rielaborazione del lutto non implica l’immunità dal rimpianto, quello del romanzo è, infatti, un mondo che è interamente nostalgia – «che ne ho anzi solo nostalgia» (p. 13) – col suo non-essere-più, filtrato dagli occhi degli uomini e delle statue, parallele e mai goffe, con le loro iridi bianche, spettatrici mute di uno spettacolo in cui a recitare sono rimasti in pochi.
La scena di Zanotti, posta alla giusta distanza romanzesca dal mondo d’oggi, è un gioco di memoria e dimensione onirica, di esperienze sognate e di pagine del vissuto che iniziano a essere raccontate a una bambina che si chiama Sofia (non a caso) che inizia a sapere (appunto), a conoscere; è un quadro di nostalgie bianche giustapposte a figure colorate dai loro sentimenti e dal loro essere: la zia Incarnazione che è rossa e verde, poi blu quando inizia a rimpiangere, poi violetto «che in lei era sempre stato il colore della nostalgia» (p. 43).
I colori filtrano i sentimenti e colorano il mondo disegnato da Zanotti che si fa concreto visivamente, scolpito e pluridimensionale ma anche fonosimbolico: «toc, toc del martello» e il «ron, ron della sega» (p. 25); «unf, unf ansimava» (p. 23), «il ronron di Primavera» (p. 99).
Il dettato attraverso la voce di un narratore che è profeta del passato – «ti racconterò»; «evocherò» (p. 11) – consegna un romanzo di formazione e regala frasi dal sapore aforistico ma mai sentenzioso: «prendere atto che a ogni nuova tappa occorre rinunciare ai privilegi di quella precedente» (p. 162) o ancora «perché quando una cosa scompare non ci vuol poi molto a dimenticarsi che è esistita» (p. 34).
Il tema del ricordo corre tra le pagine del romanzo, tra i ricordi di chi teme che i giorni fuori dall’agglomerato siano rimasti impigliati nei cancelli, segnati da un confine che non ammette passaggi.
È forse osmotica, invece, la conoscenza, specie quando si spinge troppo oltre o subisce influenze forti, così la zia Incarnazione si raccomanda: «solo stai attento a non esagerare, esiste sai un confine tra l’amore e la troppa erudizione» (p. 36). È osmotica, mediata e parziale: mediata come quella che Pepe ha del mondo animale, mediata dai media e dai programmi-natura; parziale, perché la conoscenza non è mai un intero, la abitiamo sempre a sprazzi, forse, come Sofia ha fatto coi suoi mondi.
Sofia è una delle figure femminili che compaiono nel romanzo, la più importante, la bambina condannata a un’«interminabile infanzia senza infanzia» (p. 200).
Le tre protagoniste, tre figure figurali, sono lo specchio di tre diverse concezioni del sapere, di tre diversi approcci alla conoscenza: Petronella (di pietra come le statue) che col suo fare calcolatore incarna il sapere che seduce, un sapere parco di istintività; Primavera col suo sapere immediato e bambino e poi Sofia che è il sapere: quello cercato, desiderato a lungo, poi raggiunto e subito perso ma che resta come chiave, per capire.
Per capire che «l’infanzia finisce e che una bambina bonsai non la si può sradicare» (p. 229).

Tamara Baris


giovedì 30 dicembre 2010

2010

Le mie note

  • Di TB · lunedì
    . Riportando tutto a casa, Nicola La Gioia;
    . La battuta perfetta, Carlo D'Amicis;
    . XY, Sandro Veronesi;
    . Bambini bonsai, Paolo Zanotti;
    . Lo Spazio Sfinito, Tommaso Pincio, col vestito Minimum Fax;
    . M., Tommaso Pincio, ripescato per la tesi;
    . Il farmaco, Gilda Policastro;
    . La letteratura come menzogna, GM, (come una preghiera);
    . La vita oscena, Aldo Nove;
    . Sangue di cane, Veronica Tomassini;
    . Il cuore dei briganti, Flavio Soriga.
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venerdì 26 novembre 2010

intervista a G. Dadati (seconda parte articolo Vox)

Il libro della Tomassini è uscito a settembre per una neonata casa editrice milanese, a parlarci di Laurana Editore, in breve, è Gabriele Dadati, responsabile di redazione e addetto alla comunicazione.



Ciao Gabriele, Laurana pare se la stia cavando molto bene, col libro della Tomassini e con quello di Cassani, anche.
Siete in libreria da pochi mesi ma si parla già molto di voi, con quali tematiche vi presentate ai lettori?

Le tematiche della porta accanto, mi verrebbe da dire. Cioè cose che stanno a tiro, che ci riguardano anche, ma che collocate dietro un uscio socchiuso ci risultano misteriose. L’immigrazione (cosa sappiamo davvero degli immigrati che ci vivono a fianco?), la solitudine in mezzo agli altri (ci riguarda tutti, a turno: ma come maneggiarla?), la semplificazione del linguaggio politico (ne siamo investiti, ma come fare a invertire la tendenza?) e così via. Insomma, cerchiamo di “far vedere” i meccanismi invisibili dell’Italia che ci circonda.

E, a proposito del nome, dei nomi, che significano sempre qualcosa, perché Laurana? E perché Rimmel?

Paolo Laurana è il protagonista di A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia: uno che curiosa e finisce male. E ancora prima Francesco Laurana è un misterioso scultore che arriva dalla Dalmazia, sta un po’ in Sicilia nel secondo Quattrocento facendo cose meravigliose, e poi se ne va, di fatto svanendo. Sembra insomma che chi si chiama Laurana sia destinato a portare uno sguardo e una capacità rara che attraversa le vite degli altri. Così ci siamo trovati a che fare con un misterioso signor Laurana che sta a capo di tutti noi…
Rimmel invece è l’idea di leggerezza che si unisce all’idea di bellezza, è la capacità di dare un nuovo volto alle cose. È quel che dovremmo fare con i nostri libri.

Bene, tornando a questioni di stile e di marchio, forse: qual è il genere di libro su cui puntate? Leggo sulla vostra pagina, on-line: Laurana Editore, la nuova narrativa italiana. Mi spiego meglio, Gabriele quale potrebbe essere, secondo te, la nuova narrativa italiana? La lingua della Tomassini è ricercata, molto, utilizza parole dimenticate, espressioni letterarie. Laurana punterà su questo aspetto? Sulla forma?

Non abbiamo uno sbarramento all’ingresso: Tomassini, Cassani, Bosonetto e Pagliaro, i quattro autori che pubblichiamo quest’anno, hanno un’idea di lingua e un’idea di letteratura abbastanza diverse tra loro. Tutti però vanno a collocarsi in un filone di ricerca che intreccia quelle tematiche della porta accanto di cui si diceva all’inizio. È per questo che sono stati scelti i loro libri ed è con lo stesso spirito che sceglieremo anche i prossimi. Non ci spaventano il lessico vasto della Tomassini né la prosa limpida di Cassani, la lingua comica febbrile di Bosonetto né i sicilianismi di Pagliaro: siamo contenti di essere i loro primi lettori e vorremmo che tanti altri si affiancassero a noi.

Sempre a proposito di stile: noto un certo rigore nelle vostre copertine, mi sembrano essenziali, eleganti con foto d’autore in bianco e nero, classiche. Vuol dire forse: non vorremmo mai passare di moda?

Direi di sì. L’idea è proprio quella di libri fatti per restare. Chi ammicca è simpatico oggi ma stufa domani, noi invece vorremo star lì come dei piccoli classici, che con sguardo sereno si collocano nella vita dei lettori.

Un’ultima domanda.
Tempo fa, all’incirca un anno fa, eravamo in macchina e ti accompagnavo ad una presentazione, la tua, e ricordo che avevi con te il manoscritto di uno scrittore, era quello di Marco Bosonetto. Il libro di Marco sarà nelle librerie dal 15 ottobre: cosa ci dici questo romanzo? Ci dai qualche anticipazione?

“Nel grande show della democrazia” è un romanzo che parla di un’Italia futura in cui il premier si elegge tramite televoto. Il premier in carica, Marco Dell’Elmo, è strappato dalla poltrona per via di uno scandalo (omo)sessuale. Gli italiani pensano bene di eleggere al suo posto un comico, Valer Mandilan, divenuto famoso in televisione perché imitava Dell’Elmo. Da questa idea sprizzano come scintille personaggi straordinari che si inseguono su e giù per la penisola ognuno preso dalle sue vicende e dalle sue manie.
Il libro è bello, avvincente e ben scritto. Evita di essere satira ma è romanzo-romanzo, in tutti i sensi. E ci fa riflettere su che scempio sia il fatto che la comunicazione politica, nel nostro paese, è giorno dopo giorno sempre più impoverita e ridotta a slogan…

Grazie Gabriele e in bocca al lupo.

Grazie a te. E crepi il lupo (metaforico).

Tamara Baris

sabato 13 novembre 2010

XY il romanzo di Veronesi e la campagna virale della Fandango. Quattro chiacchiere con Federico Mauro, multimedia designer e art director della Fandango.

Il 21 ottobre è uscito per Fandango Libri il romanzo XY di Sandro Veronesi. Lo stesso romanzo di cui si parlò tempo fa su un numero di Vox Studenti: era Giugno 2009, raccontavo dell’anteprima che Veronesi regalò al pubblico della Libreria Bibli, a Trastevere, ma questa è un’altra storia e forse qualcuno di voi se la ricorda.
XY si fece amare subito però e mi lasciò una buona dose di curiosità. Curiosità che poi è tornata quando ho visto che, a luglio, la Fandango ha cominciato a disseminare sul web dei segnali: la pagina Facebook, il sito, poi gli indizi.
Il tempo di prendere confidenza, poi i tanti fan delle pagine Facebook stavano lì a scervellarsi, col caldo d’agosto, a seguire gli indizi: tra le polemiche per la voce fittizia su Wikipedia, i dubbi e l’entusiasmo per gli spin-off promessi dopo l’uscita del libro e, dopo il fatidico 21 ottobre,  la passione di lettori di gialli poi convertiti in lettori di Veronesi, o di lettori di Veronesi scopertisi di colpo delusi da un romanzo che credevano giallo.
In tutto ciò chi firma l’articolo ha fatto in tempo a: stupirsi della trovata della Fandango; chiedersi «ma Veronesi, che dice?»; andare semplicemente sulla pagina del sito ufficiale di XY e trovare una grafica accattivante e giudicare il lavoro della Fandango, almeno fino a quel momento, riuscito: la grafica cattura, su questo sito ci torno; trovare, quindi, il modo di contattare il grafico della Fandango e scambiare con lui qualche battuta e poi, portarvelo qui. E naturalmente: leggere il libro, appena trovato in libreria. A dire il vero, l’avrei letto comunque il libro, da lettore di Veronesi ma anche la strategia-Fandango m’ha convinto: andava seguita. E solitamente non amo queste cose.

Il romanzo l’ho preso e divorato in poche ore, intervallando alla lettura una lezione universitaria, una cena e una dormita: XY funziona. Veronesi si conferma il narratore che è, con le parole che ha, con la capacità che lo contraddistingue di dire e raccontare, perciò sì: anche lo squalo che uccide un uomo in alta montagna può raccontarlo: se ci sono le parole per dirlo, è possibile, recita la quarta del romanzo e se in un primo momento non m’aveva convinto tutta quella sicurezza, poi, a lettura finita, la quarta è rientrata nell’ottica d’un lavoro intelligente che è prima d’ogni cosa, com’è giusto e naturale e logico che sia: un bel romanzo, d’un bravo scrittore, in cui non mi interessa indagare ossessivamente il senso perché la forza sta in quel finale sospeso e in quella narrazione parziale e nelle parole che chiudono la storia, e se un senso uno squalo in alta montagna non ce l’ha, non mi interessa.
Parlare di XY senza svelare XY è difficile, leggerlo è meglio, comunque concludendo, in maniera scorretta forse, il romanzo di Veronesi è un bel romanzo, un romanzo che appassiona e disturba, che funziona anche come oggetto-libro in sé con quella copertina lucida, glaciale, essenziale e che è stato promosso da una campagna furba.
Trovare nel romanzo quello che gli indizi m’avevano più o meno esplicitamente detto non m’ha disturbato, anzi. La fine del romanzo non m’ha deluso: fa il paio con quello che gli indizi avevano denunciato sul tavolo virtuale del sito, sin dall’inizio.
Insomma, secondo me ha funzionato e qui ne parlerò, brevemente, con una delle persone che l’ha fatta funzionare: Federico Mauro, multimedia designer e art director della Fandango.

La prima cosa che banalmente mi viene in mente di chiederti è: com’è nata l’idea di utilizzare una campagna pubblicitaria, in stile film-telefilm americani, forse Lost, per promuovere un romanzo? Pensi il fatto sia stato facilitato dal romanzo in sé, cioè dal fatto che  questo romanzo si prestasse a un simile tipo di promozione?

Sandro Veronesi è uno scrittore importante. Ed il fatto che pubblicasse il suo nuovo romanzo con un editore piccolo come Fandango presupponeva che ci dovesse essere un’attenzione specifica per lanciare il romanzo. Abbiamo quindi fatto una lunghissima riunione con Sandro senza sapere di cosa parlasse il suo libro.
L’idea di una Campagna in quel modo e di quel tipo è venuta subito dopo essere entrati nel ‘mondo del romanzo’ e le sue fortissime suggestioni.
Tutte le idee, le nervature, gli agganci di significato e la strategia non si è definita a priori ma è nata e si è fortemente legata al romanzo.
Lost  in verità, per il tipo di campagna, non è un riferimento corretto. Penso che invece i riferimenti più prossimi,  quelli che ci hanno senz’altro ispirato e guidato, siano stati piuttosto The Blair Witch Project  ma anche Cloverfiled sempre partorito dalla mente di quel genio di JJ Abrams papà di Lost. Ma per quel che mi riguarda personalmente un altro riferimento che ho sempre avuto in mente è stato anche, ad esempio, Twin Peaks.
Venendo alla seconda domanda: sì penso assolutamente che il romanzo abbia suggerito in qualche modo il tipo di campagna. Non credo infatti che possa essere un ‘modello’ o un metodo applicabile a qualunque prodotto. A mio avviso ha funzionato proprio perché la strategia era molto legata, nella sua narrazione e declinazione, al libro.

L’idea può non piacere e a qualcuno non è piaciuta ma gli accessi al sito, alla pagina e i post dei lettori hanno dimostrato che la vostra campagna è riuscita, il meccanismo di promozione ha funzionato, tanto nei lettori soddisfatti quanto in quelli insoddisfatti.
Tra gli insoddisfatti: chi credeva di trovarsi di fronte un giallo del tutto diverso con tanto di colpevole ma, del resto, una delle cose che è sempre stata sul tavolo di lavoro virtuale su www.x-y.it era una pagina di Durrenmatt, inequivocabile, da La promessa. Un requiem per il romanzo giallo. Uno degli indizi che personalmente ho gradito di più, in particolar modo a lettura ultimata.
 A proposito degli indizi: è stato difficile sceglierli? Com’è si svolto il lavoro? Quanto l’ha seguito Sandro?

Francamente i feedback che abbiamo avuto fino ad ora sulla campagna sono in larghissima parte positivi. Ed anche i numeri, la rassegna stampa ottenuta, l’attenzione mediatica sembrerebbero confermare un trend decisamente positivo ed interessante. Io credo che, ad un occhio attento, non siano sfuggiti certi indizi volutamente più presenti, come quelli che hai citato tu. Senz’altro l’aggancio thriller era quello che meglio si spendeva per creare l’atmosfera ed il legame con una strategia virale. Ma è anche quello che crea il legame all’interno del romanzo!
L’aver inserito la frase di Durenmatt, ma anche e soprattutto il contributo di Chandler ed altri indizi parimenti espliciti, facevano senz’altro intendere che la sostanza narrativa del libro non fosse canonicamente né un giallo né un thriller.  Su questo siamo stati onesti e molto attenti a dosare gli indizi.
Ovviamente abbiamo gestito tutta la Campagna noi come Fandango, ma Sandro ha supervisionato l’intero lavoro.
Credo che se qualcuno si sia sentito tradito dalla campagna è perché non l’ha seguita bene o comunque con poca attenzione. Poi, per carità, può non piacere. È legittimo, ci mancherebbe, ma non credo sia imputabile all’aver fornito false tracce. E la riprova è sul fatto che i fan più attenti, che hanno seguito da subito su facebook l’operazione (e molti di loro non erano lettori di Veronesi a quanto dichiarano) sono rimasti estremamente soddisfatti. Della strategia di Comunicazione ma anche e soprattutto del libro. E questo ci fa pensare che l’esperimento ha funzionato.

Il lavoro è continuato sul sito dopo l’uscita del libro: i luoghi, il dizionario, lo speciale sui nomi. Cosa ci aspetta ancora?
Beh, c’è stata anche l’Applicazione per iPhone e iPad di Caos Calmo con 50 minuti di film più il libro a 3,99 euro ed anche indizi legati ad XY. Ci sarà altro materiale che seguirà il lancio del libro almeno fino a Natale. Ci saranno altri scritti inediti. E, se gli utenti saranno sufficientemente stimolati e stimolanti, non è detto che sia lo stesso Veronesi a parlare direttamente con loro su Facebook.

Vedremo, allora. Grazie Federico e buon lavoro.
Grazie a te!

Federico Mauro








Tamara Baris

articolo per Vox  Studenti, novembre-dicembre 2010, num. 2

lunedì 18 ottobre 2010

Sangue di cane, Veronica Tomassini, Laurana Editore, settembre 2010.

Sangue di cane, Veronica Tomassini, Laurana Editore, settembre 2010.
Recensione e intervista a Gabriele Dadati (Prima parte articolo Vox)


Veronica Tomassini, foto di Marina Magri

Sangue di cane è la storia di un inferno siracusano e polacco (perché Siracusa è una città straordinaria ma ha sottouniversi polacchi). È una storia in cui l’amore perde sempre, eppure vince su tutto. Un amore di sangue, un amore di cane che lega in un una coppia caotica e gitana una ragazzina ventenne borghese e un semaforista polacco con un passato da criminale e un presente di alcol. Una donna giovane e fragile e un uomo più grande, buio e compatto.
La loro non è una storia d’amore, ma, una storia mossa da amore che dà inizio a quella che l’autrice definisce «una saga polacca», la loro «variopinta epica polacca», fatta discendere da un disegno superiore eppure senza senso.
Un amore che si muove in un’atmosfera cupa, buia, carnale: la storia è corpo, sesso, sangue – appunto – e vita. Vita scura, vita buia quasi come se gran parte del romanzo fosse ambientato in una foto di Saudek: tra fondi scuri e corpi che sono soprattutto carne, senza vergogna.
L’atmosfera generale è un’atmosfera che ha la puzza di morte, il contenuto è basso; è un inferno in terra tra scabbia, prurito e vodka. L’amore cerca «ogni angolo, ogni andito, ogni lercio buco» in cui nascere e la lingua di chi racconta pure è morta. Morta perché letteraria.
Quel quadro, scuro alla Saudek, o caotico, come una scena di un film di Kusturica, diviene così forma: si ordina – in un’alternarsi di analessi e prolessi – perché la scrittura della Tomassini una forma ce l’ha, eccome: è una scrittura personale, lasciata libera, grassa, sporca, così come è: l’editing non l’ha messa a dieta e compaiono così diversi registri. Spiccano parole desuete, desuete come l’abito che indossa la protagonista «di me amavi il sorriso, mi dicesti, il mio modo di vestire desueto anche» che costituiscono il vestiario, a volte un po’ fuori moda o forse vintage, della scrittrice.
Vintage, forse, soprattutto, ché lo stile a volte sembra roba d’altri tempi e perché le scritture sopra la quarantadue non vendono più e le fantasie neanche: un progressivo dimagrimento e modelli standard che stanno bene un po’ a tutti, lineari: le tinte forti non tutti possono permettersele, oppure bisognerebbe portarle solo con disinvoltura? Una parola come «desco», mica sta bene addosso a tutti?
Invece, in Sangue di cane, trova posto. Certo, è una fantasia démodé quella di star a cercare ricami o accessori a volte troppo marcati, eppure gli accessori fanno la personalità. Fanno uno stile. Forse c’è qualcosa di troppo nella scrittura della Tomassini, vero. Però c’è soprattutto qualcosa, e non capita spesso che ci sia, quel qualcosa.
Così se gli abitini della protagonista che piacevano al suo polacco, al suo Slawek (al suo slavo ma schiava è lei) sono «rimediati dal robivecchi», lessico e periodare pure: Siracusa si presenta col «suo grappolo di pleonastici riverberi»; la protagonista ha «contezza», è seduta – appunto – «al desco della menzogna», pronta a consumare il suo pasto: quel suo amore che la divora e le tira via il sangue (e lo sostituisce con quello di cane), che la rende patetica, e lei lo sa: «sono patetica scusami». Eppure la guarisce, Slawek, arrivando a lei attraverso «i più segreti recessi del suo essere».
Ma il robivecchi di «sussiego», «lucore», «sentina» e l’«aria adamantina» si abbinano al casual più logoro e trasandato spesso tendente al turpiloquio, e crudo, vissuto, liso: consumato come il loro amore e le scene della loro storia, vissuta e «oscena».
Quello della ragazza è un «inane modo di stare al mondo», lei è «l’inetta», si sente come un personaggio di Simenon, che non trova pace se non in alcuni rari momenti con la felicità che è un cauto refrain nel testo: «eravamo felici, pressappoco felici»; «eravamo felici, non ho paura ad asserirlo, pressappoco felici»,  in quell’epica sbagliata in cui a fare da spartiacque tra il prima e il dopo c’è un semaforo: il prima occupa poco spazio, il dopo lo divora, come se si trattasse di una lunga lettera d’amore e sconfitta. Il prima non ha senso e non ha più tempo: è passato e non trova spazio, ora.
La sconfitta è quella della sola persona che forse può vincere qualcosa, in una storia che non ammette redenzione e lieto fine, perché quello è dei film, forse dei romanzi, non della vita, perché la vita è puttana e mediocre – come diceva qualcuno – come i personaggi della Tomassini, come le persone che incontra la protagonista. Perché la vita ha i suoi tempi e nella vita c’è un tempo per vivere e uno per morire, c’è poco da capire e in amore non ha senso trovare un senso (spesso), perché (a volte) si prende tutto, e si prende pura la libertà del lessico e delle frasi comprate dal robivecchi, perché, se quando racconta del suo amore è seduta al desco, nella realtà, invece, per la rabbia il portacenere l’ha scagliato contro la parete e i pezzi di vetro sono sul pavimento, e sul tavolo.





giovedì 22 aprile 2010

da un vecchio Vox, 2010: La storia siamo noi. (mia pagina su Vox per 3 libri: Buonanno, Soriga, Antonelli)


La storia siamo noi. (mia pagina su Vox per 3 libri: Buonanno, Soriga, 


Antonelli)



pubblicata da Tamara Baris il giorno giovedì 22 aprile 2010 alle ore 10.25




La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere,
siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere.


Recensione scordata e dissonante: questa recensione un senso non ce l’ha.

Recensione che non ha senso perché in realtà non esiste, eppure c’è, perché è scritta o perché la si vuole spacciare per una recensione. Scordata nel senso di accordi che non funzionano, o funzionano male, dissonanti, appunto. Accordi dissonanti come quelli che seguono e concordanze a senso, come questa, un verbo al plurale con un nome collettivo:

E poi la gente / perché è la gente che fa la storia / quando si tratta di scegliere e di andare/
te la ritrovi tutta con gli occhi aperti / che sanno benissimo cosa fare.

O appunto, «il sintagma tante cose che» in Un senso, Vasco Rossi (2005) «viene [trattato] come se fosse un unico soggetto singolare». Fin qui potrebbe essere semplicemente un delirio, non fosse per le virgolette basse che dovrebbero far pensare a una citazione. Parole, parole, parole. Sì ma parole d’un volume edito dal Mulino di Giuseppe Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo d’italiano cantato (titolo che è a sua volta una citazione). Torno a De Gregori: la Storia siamo noi. La storia siamo noi diventa addirittura un poema, citato in un romanzo che è in un certo senso un italiano cantato anche quello, un italiano pop di fine settecento che risente della lettura delle avventure di Casanova e delle smorfie di Johnny Depp dei pirati dei Caraibi, senza pirati e senza Caraibi: è l’italiano pop di Flavio Soriga e del suo Il cuore dei briganti. Sull’Isola di Hermosa, un’isola che non c’è ma potrebbe essere in qualsiasi luogo, isola in cui la Storia s’è fermata e la storia corre dietro i passi veloci della sintassi di Soriga e del protagonista. Il ritmo è veloce, la storia ha piani diversi, diverse voci: personaggi che formano un coro ben orchestrato che non parlano ma declamano. Storia pop tra dislocazioni e parole che delineano un’atmosfera precisa, declamazioni, movenze sintattiche della poesia primo novecentesca e turpiloquio da doppiaggio di film americano. Nella ricetta di Soriga ingredienti diversi e in questo pasticcio?

Dunque, questa recensione (che non è una recensione) è una scatola cinese (e contraffatta) e allora dal Cuore dei briganti si apre un’altra scatola e dal testo di Antonelli, passando per quello di Soriga approda in quello di Errico Buonanno. Il passaggio è semplice, è una strada banale, ricapitoliamo: capitolo venti del libro di Soriga, via De Gregori, dicevamo, la Storia siamo noi. Lo afferma il giovane Aurelio Maria Cabré di Rosacroce, protagonista del romanzo («La Storia siamo noi, ho letto una volta in un poema»), Rosacroce e delizia di questo folle meccanismo, d’un sottotesto comune a questi tre testi, di un legame arbitrario: quello scelto dal recensore (La storia siamo noi). Ma non è un’associazione, una concordanza a senso, è un’omonimia: Aurelio è Rosacroce, Rosacroce come gli ineffabili Rosacroce: invisibili, telepatici, ubiqui: un giorno d’agosto del 1623 arrivarono a Parigi tappezzandola di manifesti di questo tipo: «Noi, deputati del Collegio Principale dei Fratelli RosaCroce, stiamo facendo soggiorno visibile e invisibile in questa città per grazia dell’Altissimo, a cui si rivolgono i cuori dei giusti».

Il «soggiorno visibile e invisibile» credo dica abbastanza perché, in realtà, i Rosacroce e tanti altri fantomatici potentissimi gruppi, o credenze, o idee o documenti che popolano o hanno popolato la nostra Storia non sono stati altro che creazioni della mente dell’uomo, divenute reali perché semplicemente credute.

Leggere per credere, leggere Sarà vero. La menzogna al potere, falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia di Errico Buonanno, Einaudi, 2009. Dimostrazione del fatto che realmente l’immaginazione è al potere, un sano e interessante manuale di resistenza al falso a uso del lettore comune. (Consigli per gli acquisti).

Ora posso dirvi che forse la coerenza sta a questo scritto come Ermete Trismegisto sta alla storia. Che però, dicevamo, siamo noi: la storia siamo noi: una concordanza a senso; siamo noi in un poema citato (in un romanzo cantato) che in realtà non è un poema ma una canzone: siamo noi perché siamo ciò che crediamo, crediamo in quello che creiamo. E allora il filo logico che lega le parti di questa recensione sono sì dei richiami, dei flash, dei lampi, delle note ma, in realtà: siamo solo noi. Siamo solo noi / quelli che muoiono presto / quelli che però è lo stesso/ … siamo solo noi / quelli che non han più rispetto per niente / neanche per la gente / siamo solo noi / quelli che ormai / non credono più a niente / e vi fregano sempre.

Il sottotesto comune a ogni testo che leggeremo: la nostra testa.

E mentre leggi che «ci sono casi poi, in cui la parola d’altri viene mimetizzata, creando una sorta di dialogicità implicita» (quello che accade proprio nei versi citati) tu, per un calco generazionale, un calco giovanilistico italiano della moltitudine inizi a canticchiarla quella canzone: si dilata la lettura e apre altri livelli, altre finestre, e la memoria ipertestuale annota fenomeni linguistici e sente risuonare il ritornello di Vasco che per un attimo ruba tutta l’attenzione. Ma cosa vuoi che sia una canzone. Una canzone è l’effetto di disturbo di ogni pagina del libro di Antonelli e allo stesso tempo l’elemento che desta l’attenzione, nella quarta di copertina si legge: «sarà dunque il lettore a ridare a quei versi il ritmo e l’intonazione giusta, facendo di questo libro uno spartito da sfogliare, da leggere, da consultare, ma sempre comunque canticchiando».

Le parole però stavolta contano, molto più della musica, ma cosa vuoi che sia un’emozione: quella suscitata dal motivetto, appunto, che ci torna in mente (mi ritorni in mente) mentre andiamo a leggere, consultare il saggio di Antonelli e quando le parole, parole, parole se la vedono con: grammatica, sintassi, lessico. Una citazione dal primo capitolo, questa: è tutta musica leggera ma la dobbiamo imparare. E questa recensioneTrismegistoascatolecinesi apre l’ultima scatola: c’è un biglietto, c’è scritto: è tutta linguistica leggera ma la dobbiamo imparare.

Insomma non sono solo canzonette, lettore.

E tornando al romanzo di Soriga prendiamo un’altra citazione (pop, pure quella): People have the power (e siamo solo noi) e chiudiamo allora con le parole di Buonanno:

«L’esistenza è fatta di parole, di idee e di balzi d’immaginazione. (…) i poeti e i narratori sono l’autentica sostanza del mondo: onesti, faziosi o visionari, loro è la firma (contraffatta) che resta in calce alla commedia».

Tamara Baris



Errico Buonanno, Sarà vero. La menzogna al potere, falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la Storia, Einaudi. Stile libero Extra, 2009.

Giuseppe Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone, Mezzo secolo di italiano cantato, Il Mulino, 2010.

Flavio Soriga, Il cuore dei Briganti, Bompiani, 2010.