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lunedì 18 ottobre 2010

Sangue di cane, Veronica Tomassini, Laurana Editore, settembre 2010.

Sangue di cane, Veronica Tomassini, Laurana Editore, settembre 2010.
Recensione e intervista a Gabriele Dadati (Prima parte articolo Vox)


Veronica Tomassini, foto di Marina Magri

Sangue di cane è la storia di un inferno siracusano e polacco (perché Siracusa è una città straordinaria ma ha sottouniversi polacchi). È una storia in cui l’amore perde sempre, eppure vince su tutto. Un amore di sangue, un amore di cane che lega in un una coppia caotica e gitana una ragazzina ventenne borghese e un semaforista polacco con un passato da criminale e un presente di alcol. Una donna giovane e fragile e un uomo più grande, buio e compatto.
La loro non è una storia d’amore, ma, una storia mossa da amore che dà inizio a quella che l’autrice definisce «una saga polacca», la loro «variopinta epica polacca», fatta discendere da un disegno superiore eppure senza senso.
Un amore che si muove in un’atmosfera cupa, buia, carnale: la storia è corpo, sesso, sangue – appunto – e vita. Vita scura, vita buia quasi come se gran parte del romanzo fosse ambientato in una foto di Saudek: tra fondi scuri e corpi che sono soprattutto carne, senza vergogna.
L’atmosfera generale è un’atmosfera che ha la puzza di morte, il contenuto è basso; è un inferno in terra tra scabbia, prurito e vodka. L’amore cerca «ogni angolo, ogni andito, ogni lercio buco» in cui nascere e la lingua di chi racconta pure è morta. Morta perché letteraria.
Quel quadro, scuro alla Saudek, o caotico, come una scena di un film di Kusturica, diviene così forma: si ordina – in un’alternarsi di analessi e prolessi – perché la scrittura della Tomassini una forma ce l’ha, eccome: è una scrittura personale, lasciata libera, grassa, sporca, così come è: l’editing non l’ha messa a dieta e compaiono così diversi registri. Spiccano parole desuete, desuete come l’abito che indossa la protagonista «di me amavi il sorriso, mi dicesti, il mio modo di vestire desueto anche» che costituiscono il vestiario, a volte un po’ fuori moda o forse vintage, della scrittrice.
Vintage, forse, soprattutto, ché lo stile a volte sembra roba d’altri tempi e perché le scritture sopra la quarantadue non vendono più e le fantasie neanche: un progressivo dimagrimento e modelli standard che stanno bene un po’ a tutti, lineari: le tinte forti non tutti possono permettersele, oppure bisognerebbe portarle solo con disinvoltura? Una parola come «desco», mica sta bene addosso a tutti?
Invece, in Sangue di cane, trova posto. Certo, è una fantasia démodé quella di star a cercare ricami o accessori a volte troppo marcati, eppure gli accessori fanno la personalità. Fanno uno stile. Forse c’è qualcosa di troppo nella scrittura della Tomassini, vero. Però c’è soprattutto qualcosa, e non capita spesso che ci sia, quel qualcosa.
Così se gli abitini della protagonista che piacevano al suo polacco, al suo Slawek (al suo slavo ma schiava è lei) sono «rimediati dal robivecchi», lessico e periodare pure: Siracusa si presenta col «suo grappolo di pleonastici riverberi»; la protagonista ha «contezza», è seduta – appunto – «al desco della menzogna», pronta a consumare il suo pasto: quel suo amore che la divora e le tira via il sangue (e lo sostituisce con quello di cane), che la rende patetica, e lei lo sa: «sono patetica scusami». Eppure la guarisce, Slawek, arrivando a lei attraverso «i più segreti recessi del suo essere».
Ma il robivecchi di «sussiego», «lucore», «sentina» e l’«aria adamantina» si abbinano al casual più logoro e trasandato spesso tendente al turpiloquio, e crudo, vissuto, liso: consumato come il loro amore e le scene della loro storia, vissuta e «oscena».
Quello della ragazza è un «inane modo di stare al mondo», lei è «l’inetta», si sente come un personaggio di Simenon, che non trova pace se non in alcuni rari momenti con la felicità che è un cauto refrain nel testo: «eravamo felici, pressappoco felici»; «eravamo felici, non ho paura ad asserirlo, pressappoco felici»,  in quell’epica sbagliata in cui a fare da spartiacque tra il prima e il dopo c’è un semaforo: il prima occupa poco spazio, il dopo lo divora, come se si trattasse di una lunga lettera d’amore e sconfitta. Il prima non ha senso e non ha più tempo: è passato e non trova spazio, ora.
La sconfitta è quella della sola persona che forse può vincere qualcosa, in una storia che non ammette redenzione e lieto fine, perché quello è dei film, forse dei romanzi, non della vita, perché la vita è puttana e mediocre – come diceva qualcuno – come i personaggi della Tomassini, come le persone che incontra la protagonista. Perché la vita ha i suoi tempi e nella vita c’è un tempo per vivere e uno per morire, c’è poco da capire e in amore non ha senso trovare un senso (spesso), perché (a volte) si prende tutto, e si prende pura la libertà del lessico e delle frasi comprate dal robivecchi, perché, se quando racconta del suo amore è seduta al desco, nella realtà, invece, per la rabbia il portacenere l’ha scagliato contro la parete e i pezzi di vetro sono sul pavimento, e sul tavolo.