Cerca nel blog

venerdì 31 dicembre 2010

mia recensione a Bambini Bonsai, num. 2 de La Libellula, rivista di italianistica on line

Paolo ZanottiBambini bonsaiMilano, Ponte Alle Grazie, 2010, pp. 229, € 17,00
Il bello delle parole è che possono voler dire molte cose ma in fondo significano proprio quello che sono e, allora, i bambini di Zanotti sono bonsai proprio perché – come le piante giapponesi – crescono in un vaso: bonsai vuol dire per metà ‘vaso’, ‘contenitore’, per metà ‘coltivare’, ‘educare’. Viaggiano tra sognato e reale e si confondono in una realtà sognante che ha, a tratti, l’odore alcolico di una «grappa di carrubo» (p. 27) che potrebbe richiamare il sogno indefinito dell’essenza di finocchio dei Fiori Blu di Queneau. Il protagonista di questa storia è un bambino, Pepe, che partendo dall’agglomerato (il riciclato cimitero monumentale di Staglieno, a Genova), dove vive con un padre mezzo uomo mezzo cyborg e una madre andalusa (bella e volubile), ripercorre il racconto di un’esperienza e recupera quel mondo perduto – che è l’infanzia – in un mondo ormai perduto davvero perché stravolto dai cambiamenti climatici. Chiamati da una pioggia che ha valore iniziatico, è libertà, desiderio di conoscenza e d’avventura, i bambini – di solito alle prese con un sole rovente – si muovono un po’ come pirati, ormai senza mare, con gli adulti che compaiono come figure secondarie e come figure-altre: «li pensavo lontanissimi, perché si sa che per i bambini gli adulti appartengono a un altro spazio, a un altro tempo, insieme agli stegosauri e agli iguanodonti» (p. 35).

continua a leggerla qui: 
http://www.lalibellulaitalianistica.it/blog/?page_id=1005#_Zanotti

Ora (il link rimanda al nuovo numero della rivista. Ecco la recensione):


Bambini bonsai, Paolo Zanotti, Milano, Ponte Alle Grazie, 2010, pp. 229, euro 17,00.

Il bello delle parole è che possono voler dire molte cose ma in fondo significano proprio quello che sono e, allora, i bambini di Zanotti sono bonsai proprio perché – come le piante giapponesi – crescono in un vaso: bonsai vuol dire per metà vaso, contenitore; per metà coltivare, educare. Viaggiano tra sognato e reale e si confondono in una realtà sognante che ha, a tratti, l’odore alcolico di una «grappa di carrubo» (p. 27) che potrebbe richiamare il sogno indefinito dell’essenza di finocchio dei Fiori Blu di Queneau.
Il protagonista di questa storia è un bambino, Pepe, che partendo dall’agglomerato (il riciclato cimitero monumentale di Staglieno, a Genova), dove vive con un padre mezzo uomo mezzo cyborg e una madre andalusa (bella e volubile), ripercorre il racconto di un’esperienza e recupera quel mondo perduto – che è l’infanzia – in un mondo ormai perduto davvero perché stravolto dai cambiamenti climatici.
Chiamati da una pioggia che ha valore iniziatico, è libertà, desiderio di conoscenza e d’avventura, i bambini – di solito alle prese con un sole rovente – si muovono un po’ come pirati, ormai senza mare, con gli adulti che compaiono come figure secondarie e come figure-altre: «li pensavo lontanissimi, perché si sa che per i bambini gli adulti appartengono a un altro spazio, a un altro tempo, insieme agli stegosauri e agli iguanodonti» (p. 35).
Tempi e spazi perduti fanno da sfondo alla storia dei Bambini bonsai, con luoghi che sono corpo e che inghiottono – come l’oblio – se è vero che i cancelli hanno «le fauci» (p. 87) e che i rumori rimbombano in una «smisurata volta toracica di asfalto e cemento» (p. 94), in un mondo finito che divora perché non cessa mai di finire.
La vicenda narrata è consegnata a una scrittura tonda, mite, senza spigoli; l’autore scrive con uno stile che è frutto di cure meticolose, senso estetico e pazienza, tutt’altro che provvisorio, posato e pesato, mai pesante. La sintassi fluida, l’apparato lessicale piuttosto ampio e tradizionale sono funzionali a una scrittura intesa come la bellezza che riordina il caos e il terrore che in realtà racconta: «è un’illusione pensare che una barriera di azzurro simulato basti a proteggerci dagli sconquassi che avvengono là fuori» (p. 13).
Il romanzo stesso potrebbe essere un bonsai, forse nello specifico, un bonsai litterati: si dice che siano quelli più eleganti e che simulino un albero nato in un luogo scomodo, per esempio un luogo spesso colpito da fulmini o eventi atmosferici.
O ancora potrebbe essere un mondo non più mondo, in cui si vive in quello che un tempo era un cimitero, solo uomini e statue, solo uomini e pietre, senza animali. Gli animali, infatti, sopravvivono solo nelle tante similitudini a effetto, ferine e spesso specificamente feline: «mentre in realtà è elettrico e teso come la diffidenza dei gatti» (p. 12); «mi adescò come si fa con il soriano pulcioso ma fiero» (p. 32) o in qualche metafora usata da Zanotti che caratterizza i suoi personaggi, le azioni e le situazioni col piglio di un appassionato biologo (biologo di una vita che non c’è più): «non più tricheco ma bradipo si aggrappava alla poltrona del nostro soggiorno» (p. 27); «raggiunsi la casa quasi in volo, falco pellegrino in picchiata orizzontale mi tuffai dentro» (p. 80); «avanzammo con la sicurezza rettilinea della scolopendra che punta la fessura» (p. 104).
Il mondo animale è ormai solo retorica e ha lasciato spazio a quello inanimato dei monumenti funebri, spogliati della malinconia, con la morte stessa che non fa più paura, o almeno non come un tempo: «era come se non fossi interessato, o trovassi che il fatto di vivere in un cimitero ci esimesse dal morire» (p. 43), per un lutto ormai ri-elaborato, che ospita vita ma che in un caso resta specificamente perdita, continua a far male, quando Pepe trova, tra le tante statue, quella degli «innamorati» (p.42), perché forse quella è qualcosa che non muore mai, neanche quando non c’è più.
Eppure la rielaborazione del lutto non implica l’immunità dal rimpianto, quello del romanzo è, infatti, un mondo che è interamente nostalgia – «che ne ho anzi solo nostalgia» (p. 13) – col suo non-essere-più, filtrato dagli occhi degli uomini e delle statue, parallele e mai goffe, con le loro iridi bianche, spettatrici mute di uno spettacolo in cui a recitare sono rimasti in pochi.
La scena di Zanotti, posta alla giusta distanza romanzesca dal mondo d’oggi, è un gioco di memoria e dimensione onirica, di esperienze sognate e di pagine del vissuto che iniziano a essere raccontate a una bambina che si chiama Sofia (non a caso) che inizia a sapere (appunto), a conoscere; è un quadro di nostalgie bianche giustapposte a figure colorate dai loro sentimenti e dal loro essere: la zia Incarnazione che è rossa e verde, poi blu quando inizia a rimpiangere, poi violetto «che in lei era sempre stato il colore della nostalgia» (p. 43).
I colori filtrano i sentimenti e colorano il mondo disegnato da Zanotti che si fa concreto visivamente, scolpito e pluridimensionale ma anche fonosimbolico: «toc, toc del martello» e il «ron, ron della sega» (p. 25); «unf, unf ansimava» (p. 23), «il ronron di Primavera» (p. 99).
Il dettato attraverso la voce di un narratore che è profeta del passato – «ti racconterò»; «evocherò» (p. 11) – consegna un romanzo di formazione e regala frasi dal sapore aforistico ma mai sentenzioso: «prendere atto che a ogni nuova tappa occorre rinunciare ai privilegi di quella precedente» (p. 162) o ancora «perché quando una cosa scompare non ci vuol poi molto a dimenticarsi che è esistita» (p. 34).
Il tema del ricordo corre tra le pagine del romanzo, tra i ricordi di chi teme che i giorni fuori dall’agglomerato siano rimasti impigliati nei cancelli, segnati da un confine che non ammette passaggi.
È forse osmotica, invece, la conoscenza, specie quando si spinge troppo oltre o subisce influenze forti, così la zia Incarnazione si raccomanda: «solo stai attento a non esagerare, esiste sai un confine tra l’amore e la troppa erudizione» (p. 36). È osmotica, mediata e parziale: mediata come quella che Pepe ha del mondo animale, mediata dai media e dai programmi-natura; parziale, perché la conoscenza non è mai un intero, la abitiamo sempre a sprazzi, forse, come Sofia ha fatto coi suoi mondi.
Sofia è una delle figure femminili che compaiono nel romanzo, la più importante, la bambina condannata a un’«interminabile infanzia senza infanzia» (p. 200).
Le tre protagoniste, tre figure figurali, sono lo specchio di tre diverse concezioni del sapere, di tre diversi approcci alla conoscenza: Petronella (di pietra come le statue) che col suo fare calcolatore incarna il sapere che seduce, un sapere parco di istintività; Primavera col suo sapere immediato e bambino e poi Sofia che è il sapere: quello cercato, desiderato a lungo, poi raggiunto e subito perso ma che resta come chiave, per capire.
Per capire che «l’infanzia finisce e che una bambina bonsai non la si può sradicare» (p. 229).

Tamara Baris


giovedì 30 dicembre 2010

2010

Le mie note

  • Di TB · lunedì
    . Riportando tutto a casa, Nicola La Gioia;
    . La battuta perfetta, Carlo D'Amicis;
    . XY, Sandro Veronesi;
    . Bambini bonsai, Paolo Zanotti;
    . Lo Spazio Sfinito, Tommaso Pincio, col vestito Minimum Fax;
    . M., Tommaso Pincio, ripescato per la tesi;
    . Il farmaco, Gilda Policastro;
    . La letteratura come menzogna, GM, (come una preghiera);
    . La vita oscena, Aldo Nove;
    . Sangue di cane, Veronica Tomassini;
    . Il cuore dei briganti, Flavio Soriga.
    Mostra tutta la nota ·  ·