Paolo Zanotti, Bambini bonsai, Milano, Ponte Alle Grazie, 2010, pp. 229, € 17,00
Il bello delle parole è che possono voler dire molte cose ma in fondo significano proprio quello che sono e, allora, i bambini di Zanotti sono bonsai proprio perché – come le piante giapponesi – crescono in un vaso: bonsai vuol dire per metà ‘vaso’, ‘contenitore’, per metà ‘coltivare’, ‘educare’. Viaggiano tra sognato e reale e si confondono in una realtà sognante che ha, a tratti, l’odore alcolico di una «grappa di carrubo» (p. 27) che potrebbe richiamare il sogno indefinito dell’essenza di finocchio dei Fiori Blu di Queneau. Il protagonista di questa storia è un bambino, Pepe, che partendo dall’agglomerato (il riciclato cimitero monumentale di Staglieno, a Genova), dove vive con un padre mezzo uomo mezzo cyborg e una madre andalusa (bella e volubile), ripercorre il racconto di un’esperienza e recupera quel mondo perduto – che è l’infanzia – in un mondo ormai perduto davvero perché stravolto dai cambiamenti climatici. Chiamati da una pioggia che ha valore iniziatico, è libertà, desiderio di conoscenza e d’avventura, i bambini – di solito alle prese con un sole rovente – si muovono un po’ come pirati, ormai senza mare, con gli adulti che compaiono come figure secondarie e come figure-altre: «li pensavo lontanissimi, perché si sa che per i bambini gli adulti appartengono a un altro spazio, a un altro tempo, insieme agli stegosauri e agli iguanodonti» (p. 35).
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Ora (il link rimanda al nuovo numero della rivista. Ecco la recensione):
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Bambini bonsai, Paolo Zanotti, Milano, Ponte Alle Grazie,
2010, pp. 229, euro 17,00.
Il bello delle parole è che possono voler dire molte cose ma in
fondo significano proprio quello che sono e, allora, i bambini di
Zanotti sono bonsai proprio perché – come le piante
giapponesi – crescono in un vaso: bonsai vuol dire per metà
vaso, contenitore; per metà coltivare, educare. Viaggiano tra
sognato e reale e si confondono in una realtà sognante che ha, a
tratti, l’odore alcolico di una «grappa di carrubo» (p. 27)
che potrebbe richiamare il sogno indefinito dell’essenza di
finocchio dei Fiori Blu di Queneau.
Il protagonista di questa storia è un bambino, Pepe, che partendo
dall’agglomerato (il riciclato cimitero monumentale di Staglieno, a
Genova), dove vive con un padre mezzo uomo mezzo cyborg e una madre
andalusa (bella e volubile), ripercorre il racconto di un’esperienza
e recupera quel mondo perduto – che è l’infanzia – in un mondo
ormai perduto davvero perché stravolto dai cambiamenti climatici.
Chiamati da una pioggia che ha valore iniziatico, è libertà,
desiderio di conoscenza e d’avventura, i bambini – di solito alle
prese con un sole rovente – si muovono un po’ come pirati, ormai
senza mare, con gli adulti che compaiono come figure secondarie e
come figure-altre: «li pensavo lontanissimi, perché si sa che per i
bambini gli adulti appartengono a un altro spazio, a un altro tempo,
insieme agli stegosauri e agli iguanodonti» (p. 35).
Tempi e spazi perduti fanno da sfondo alla storia dei Bambini
bonsai, con luoghi che sono corpo e che inghiottono – come
l’oblio – se è vero che i cancelli hanno «le fauci» (p. 87)
e che i rumori rimbombano in una «smisurata volta toracica di
asfalto e cemento» (p. 94), in un mondo finito che divora perché
non cessa mai di finire.
La vicenda narrata è consegnata a una scrittura tonda, mite, senza
spigoli; l’autore scrive con uno stile che è frutto di cure
meticolose, senso estetico e pazienza, tutt’altro che provvisorio,
posato e pesato, mai pesante. La sintassi fluida, l’apparato
lessicale piuttosto ampio e tradizionale sono funzionali a una
scrittura intesa come la bellezza che riordina il caos e il terrore
che in realtà racconta: «è un’illusione pensare che una barriera
di azzurro simulato basti a proteggerci dagli sconquassi che
avvengono là fuori» (p. 13).
Il romanzo stesso potrebbe essere un bonsai, forse nello specifico,
un bonsai litterati: si dice che siano quelli più eleganti e
che simulino un albero nato in un luogo scomodo, per esempio un luogo
spesso colpito da fulmini o eventi atmosferici.
O ancora potrebbe essere un mondo non più mondo, in cui si vive in
quello che un tempo era un cimitero, solo uomini e statue, solo
uomini e pietre, senza animali. Gli animali, infatti, sopravvivono
solo nelle tante similitudini a effetto, ferine e spesso
specificamente feline: «mentre in realtà è elettrico e teso come
la diffidenza dei gatti» (p. 12); «mi adescò come si fa con il
soriano pulcioso ma fiero» (p. 32) o in qualche metafora usata da
Zanotti che caratterizza i suoi personaggi, le azioni e le situazioni
col piglio di un appassionato biologo (biologo di una vita che non
c’è più): «non più tricheco ma bradipo si aggrappava alla
poltrona del nostro soggiorno» (p. 27); «raggiunsi la casa quasi in
volo, falco pellegrino in picchiata orizzontale mi tuffai dentro»
(p. 80); «avanzammo con la sicurezza rettilinea della scolopendra
che punta la fessura» (p. 104).
Il mondo animale è ormai solo retorica e ha lasciato spazio a quello
inanimato dei monumenti funebri, spogliati della malinconia, con la
morte stessa che non fa più paura, o almeno non come un tempo: «era
come se non fossi interessato, o trovassi che il fatto di vivere in
un cimitero ci esimesse dal morire» (p. 43), per un lutto ormai
ri-elaborato, che ospita vita ma che in un caso resta specificamente
perdita, continua a far male, quando Pepe trova, tra le tante statue,
quella degli «innamorati» (p.42), perché forse quella è
qualcosa che non muore mai, neanche quando non c’è più.
Eppure la rielaborazione del lutto non implica l’immunità dal
rimpianto, quello del romanzo è, infatti, un mondo che è
interamente nostalgia – «che ne ho anzi solo nostalgia» (p. 13) –
col suo non-essere-più, filtrato dagli occhi degli uomini e delle
statue, parallele e mai goffe, con le loro iridi bianche, spettatrici
mute di uno spettacolo in cui a recitare sono rimasti in pochi.
La scena di Zanotti, posta alla giusta distanza romanzesca dal mondo
d’oggi, è un gioco di memoria e dimensione onirica, di esperienze
sognate e di pagine del vissuto che iniziano a essere raccontate a
una bambina che si chiama Sofia (non a caso) che inizia a sapere
(appunto), a conoscere; è un quadro di nostalgie bianche
giustapposte a figure colorate dai loro sentimenti e dal loro essere:
la zia Incarnazione che è rossa e verde, poi blu quando inizia a
rimpiangere, poi violetto «che in lei era sempre stato il colore
della nostalgia» (p. 43).
I colori filtrano i sentimenti e colorano il mondo disegnato da
Zanotti che si fa concreto visivamente, scolpito e pluridimensionale
ma anche fonosimbolico: «toc, toc del martello» e il «ron, ron
della sega» (p. 25); «unf, unf ansimava» (p. 23), «il ronron di
Primavera» (p. 99).
Il dettato attraverso la voce di un narratore che è profeta del
passato – «ti racconterò»; «evocherò» (p. 11) – consegna un
romanzo di formazione e regala frasi dal sapore aforistico ma mai
sentenzioso: «prendere atto che a ogni nuova tappa occorre
rinunciare ai privilegi di quella precedente» (p. 162) o ancora
«perché quando una cosa scompare non ci vuol poi molto a
dimenticarsi che è esistita» (p. 34).
Il tema del ricordo corre tra le pagine del romanzo, tra i ricordi di
chi teme che i giorni fuori dall’agglomerato siano rimasti
impigliati nei cancelli, segnati da un confine che non ammette
passaggi.
È forse osmotica, invece, la conoscenza, specie quando si spinge
troppo oltre o subisce influenze forti, così la zia Incarnazione si
raccomanda: «solo stai attento a non esagerare, esiste sai un
confine tra l’amore e la troppa erudizione» (p. 36). È osmotica,
mediata e parziale: mediata come quella che Pepe ha del mondo
animale, mediata dai media e dai programmi-natura; parziale, perché
la conoscenza non è mai un intero, la abitiamo sempre a sprazzi,
forse, come Sofia ha fatto coi suoi mondi.
Sofia è una delle figure femminili che compaiono nel romanzo, la più
importante, la bambina condannata a un’«interminabile infanzia
senza infanzia» (p. 200).
Le tre protagoniste, tre figure figurali, sono lo specchio di tre
diverse concezioni del sapere, di tre diversi approcci alla
conoscenza: Petronella (di pietra come le statue) che col suo fare
calcolatore incarna il sapere che seduce, un sapere parco di
istintività; Primavera col suo sapere immediato e bambino e poi
Sofia che è il sapere: quello cercato, desiderato a lungo, poi
raggiunto e subito perso ma che resta come chiave, per capire.
Per capire che «l’infanzia finisce e che una bambina bonsai non la
si può sradicare» (p. 229).
Tamara Baris