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domenica 26 giugno 2011

Presentazione, La battuta perfetta e cena presso la taverna di Casa Gregorio


Grazie all'Associazione Pro Loco Castro dei Volsci e alla Biblioteca Comunale Carlo Vignoli.
E a cena: una pizza a Casa Gregorio

sabato 25 giugno 2011

Il doppio di nessuno contromano e a ritroso. Hotel a zero stelle di Tommaso Pincio.


Il doppio di nessuno contromano e a ritroso. Hotel a zero stelle di Tommaso Pincio.

 [con-tro-mà-no] o contro mano avv.
• Nella circolazione stradale, in senso inverso a quello indicato dalla segnaletica: andare c.
• a. 1950


Il Contromano di Tommaso Pincio credo possa definirsi uno di quei libri da leggere, che ti fa quasi dire «da leggere assolutamente!», andare contro (contromano?) quelle sane regole di recensore che dovrebbero, invece, impedirti di inanellare giudizi di valore, osservazioni entusiastiche, tic linguistici da pseudocritico onnivoro da narrativese.

È da leggere perché ha il sapore buono dei libri da amare: quelli che ti dipanano le nebbie, che ti annebbiano le certezze, che ti pungono come spilli e ti ricordano che stai sbagliando qualcosa, che dovresti fare diversamente, o che dovresti sospendere il giudizio, oppure che in realtà non dovresti fare proprio nulla, perché tanto niente cambierebbe. I libri sinceri, nel modo in cui un libro deve essere sincero.

È da leggere per chi ha seguito/letto/amato Pincio perché è come se davvero fosse tutto ciò che in qualche modo hai creduto di conoscere di lui/ ti ha colpito/ ti ha rapito, preso da un’altra angolazione. A ritroso e contromano.

Contromano sono mutate le geografie: quello che avevi a destra lo vedi a sinistra: è la stessa strada ma da un altro punto di vista: è lo stesso Pincio ma da un’altra angolazione (tutta nuova, inaspettata): nessuno spazio sfinito, luogo narrativo abusato, in qualsiasi Pincio in cui tu possa andare ti sembra di esserci già stato? No, non è mai lo stesso posto.
Tutta questa strada, contromano, è sorprendente e sorprendentemente bella. Anche perché ci sono tante cose mai dette che forse avevi solo immaginato, ce ne sono altre che ti meravigliano totalmente.

Lo leggi con piacere rintracciando anche impressioni di Tommaso Pincio lette nei suoi articoli per «il manifesto»; o in un racconto de «Il Caffè illustrato», o che hai sentito da lui in qualche incontro (dalla volta a colazione per la consegna di una delle bozze di C. per la tesi; alla giornata mantovana dedicata a DFW): hai quel senso caro di precarietà del “ci sono già stato, essendoci mai stato” (a rigor di logica ci saresti già stato davvero, tu lettore, solo se avessi già letto questo Pincio confezionato da Laterza, invece è la prima volta che lo leggi, questo Pincio. Nessuno esclude che tu non possa tornarci sopra, e molto probabilmente, a fine lettura, lo farai).

Insomma è come se trovasse una casa tutto il Pincio che conosci, come se fosse stato ordinato in un modo originale dalla persona che meglio poteva farlo, dall’unico che poteva farlo: Pincio.

È un Pincio che si ritrova nel momento in cui si ripercorre, anima, e si getta, sempre anima, in mano ai lettori, quando sembra ormai giocare a carte totalmente scoperte, quando più che mai esplicita il gusto del gioco dell’impostura dicendo chiaramente che quel «doppio di nessuno» dichiarato in passato è proprio, a voler essere precisi, anche un «doppio del cazzo»: è lo scrittore che diventa «una sua invenzione, forse i suoi genitali ectoplastici» (dopo aver letto Cinacittà più che mai mi sono tornate alla mente le parole preziose di Giorgio Manganelli e se  di “doppio del ca...” si parlava…), senza mai assurgere al ruolo di colui che sa: Pincio non sa (questo viaggio non avrebbe senso altrimenti), sceglie di essere un doppio insignificante, e non appoggia il partito di chi crede che la letteratura sia la felicità: la letteratura è, invece, il morbo della scrittura (una malattia) da un lato, e  il piacere della lettura (un piacere, questo sì) dall’altro.

(La scrittura di Pincio «è un atto di perversa umiltà»?)


Tommaso (l’incredulo, doppio) Pincio non si sogna di dare/dire verità incontrovertibili ma si perde lucidamente in questo cammino verso un ideale paradiso attraversando i maestri incontrati, quelli coi quali s’è scontrato, quelli che t’arrivano nella vita e diventano maestri senza che tu batta un ciglio, senza che tu voglia o te ne renda conto, perché un maestro in fondo è chi ti aiuta a svelare te stesso, chi ti insegna cose che hai già dentro. Chi ti influenza o meglio, come scrive Pincio, ti autorizza a una «riappropriazione debita».

Pincio nel suo libro procede col suo periodare di sempre, con le interrogative retoriche, con quel piglio metatestuale con cui da sempre si è rivolto al lettore: l’immagine della sua voce appare riconoscibile, è lui: col recupero snobistico di forme arcaiche o letterarie, con parole-tipo-pincio, con la voce altra che lo contraddistingue, voce che Daniele Giglioli su «Alias» qualche sabato ha definito «inevitabilmente aliena, un po' remota, sempre in leggero fuori sincro».
La sua prosa è quella di uno scrittore (nel vero senso della parola) e in Hotel a zero stelle ti racconta, in un modo completamente nuovo, qualcosa che forse ti ha già detto; è lui, che se pure in realtà non vuole insegnare, che anche se «non sa», regala un cammino di conquista di umanità e che se, anche se la letteratura non è la vita (come arriva a ribadire lui stesso in maniera netta «o scrivi o vivi») anche se la letteratura non è la felicità, è invece proprio quel piacere della lettura, di cui pure parla lo scrittore.

E, in questa lettura, un piacere progressivo: a piccole dosi, in ogni tappa, in ogni stanza di questo cammino: dal suo essere bambino; pensare da artista-esserlo; fino all’«epilogo in forma di epitaffio» che conclude la storia. 

In fondo è un cammino,  «il mito della conquista di sé», un viaggio, il viaggio di uno scrittore. Gli scrittori viaggiano anche da fermi, vero, ma a dire il vero Pincio s’è mosso sul serio e questo, di viaggio, parte da una bettola a zero stelle: da un luogo chiuso da cui voler/dover uscire per poter riveder le stelle: «here no star. If you want the stars go to the sky».

Perché un albergo? Perché  (lo ribadisce più volte con una serie di attacchi formulari nell’incipit) è fondamentalmente un luogo precario in cui (non)esistere: un luogo ideale (come e perché gli alberghi  siano giunti a essere definiti il luogo ideale ce lo spiega chiaramente).

E attraverso le stanze di questo albergo ideale interpreta un classico: la fuga da sé stessi, con la sapienza di chi ha, da sempre, un debole per le parole.
Dalla gustosa selva oscura rappresentata dal primo piano (l’incontro con la menzogna); passando per l’inferno del suo secondo piano, con lo spettro del fallimento; arrivando al terzo, il purgatorio, che si apre con un significativo «ognuno si acconcia le cose come più gli conviene» e rappresenta un momento in cui anche Pincio «ha uno straccio di illuminazione».
L’illuminazione riguarda la realtà, l’idea di realtà che abbiamo, il «dramma dell’impostura», l’idea di noi stessi. Il capire e il capire che capire non serve a niente.

Stupendo il purgatorio di Pincio: il ripercorrere Dick, Landolfi, Melville.
Si arriva al quarto stadio: il Paradiso. È davvero un cammino, ripeto non parlo di viaggi a lieto fine o di felicità, ma è un cammino per il lettore, è il cammino del piacere della lettura: Pincio riesce a sorprendere, a raccontare: cosa ci racconta, come ce lo racconta: è un libro che ti prende per la forma e per il contenuto. Per un mettersi a nudo, spogliando anche i maestri incontrati: ancora: Marquez, Burroughs, Orwell.
Proprio nella stanza di Orwell Pincio si mette definitivamente a nudo, non dico per quello che è, ma per quello che vuole essere: «un doppio del ca**o», si diceva.

Pincio si libera del nome e riflette e spiega anche qui, come altrove e precedentemente nel suo lavoro, al lettore fatti, spunti, idee, avvalorando le ipotesi che un lettore attento poteva aver già formulato senza il suo (prezioso) aiuto (l’attenzione onomastica, le riflessioni metaonomastiche negli altri romanzi).
O, ancora, sorprende con aneddoti e con la sua, unica, capacità di raccontare, che è quello che è diventato. Un rumore sottile quello della sua prosa? No, un «rumore muto, un’entità impalpabile ma presente che vaga di scatola cranica in scatola cranica, rimbombando nel cervello della gente».

La sconcia impostura.
La doppiezza.

Del resto, Tommaso Pincio apre il suo “Epilogo in forma di epitaffio” dicendo: «Alla fine pur seguitando a scrivere sono tornato a dipingere».  

Tamara Baris

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Tommaso Pincio, Hotel a zero stelle, Inferni e paradisi di uno scrittore senza fissa dimora, pp.236, Contromano Laterza, 12 euro, 2011.

giovedì 2 giugno 2011

Intervista ad Alessandro Bertante, tra i 12 finalisti del Premio Strega 2011 con Nina dei lupi, Marsilio.

Articolo per Vox Studenti,  maggio 2011

Intervista ad Alessandro Bertante, tra i 12 finalisti al Premio Strega 2011 con Nina dei lupi, Marsilio.        
              

Tra i 12 finalisti del Premio Strega di quest’anno c’è il bel romanzo di Alessandro Bertante: Nina dei lupi, edito da Marsilio. Un romanzo crudo, pietroso. Un romanzo visionario e mitopoietico.

Di séguito l’intervista allo scrittore che come la Di Grado e la Veladiano ha accolto il nostro invito e ha risposto alle mie domande.
(T) Al Salone del Libro di Torino c’è stato un incontro che ti ha visto insieme a Tommaso Pincio con  Scurati come moderatore: Romanzi alla fine del mondo. Negli ultimi anni la “fine”, l’apocalisse, è comparsa in più prove narrative: la “sciagura” nella storia di Nina, la Roma irriconoscibile di Cinacittà, penso anche ai Bambini Bonsai di Paolo Zanotti, o all’Uomo verticale di Longo. Perché romanzi alla fine del mondo? Da dove nascono?

(A) Questa pubblicistica nasce, secondo me, parallelamente a una fortissima produzione cinematografica che tratta di temi legati all’Apocalisse, basti pensare a tutti i film di Emmerich, a tutto un filone degli ultimi anni, il ritorno di certa cinematografia legata alla fine, a un immaginario distopico: tutta questa cinematografia credo sia stata molto influenzata dall’11 settembre: un’immagine evocativa e un’immagine di grande decadenza.  Credo che gli scrittori adesso si interroghino sulla possibile fine di una civiltà con l’Occidente che ha perso la propria centralità culturale ed economica nel mondo. Questo senso, questa sensazione è evidente un po’ in tutti i campi: in Italia siamo all’avanguardia, poi: abbiamo anche una grave decadenza culturale che vede come espressione più luminosa il nostro Presidente del Consiglio che non è causa, attenzione, ma: un sintomo. E quindi  in questa situazione, con l’Occidente che ha perso la propria centralità, la produzione artistica tenta di interrogarsi sul perché, ipotizzando anche una fine.

(T) Quindi la storia di Nina potrebbe essere un antidoto?
(A) Beh, innanzitutto la storia di Nina ha una struttura fiabesca, che lascia un finale aperto di palingenesi, di rinascita; però, se andiamo a vedere nel merito la storia di Nina, il presente da cui scaturisce la sciagura è un presente molto prossimo, non è assolutamente un immaginario fantascientifico. È una cosa plausibile, riconoscibile al lettore.

(T) Come la Roma di Cinacittà di Tommaso Pincio, del resto…
(A) Esatto, esatto… questo tipo di narrativa, che potremmo definire post-apocalittica, ha una specificità italiana: perché gli scrittori italiani non immaginano come gli statunitensi, McCarthy per esempio, un mondo devastato, desertificato, ma immaginano un mondo così come lo vedono adesso che amplifica, però, le proprie contraddizioni fino a portare a una decadenza irreversibile.

(T) Nina dei lupi è «Un dispositivo mitopoietico e visionario come pochi altri tra i romanzi contemporanei. Troppo spesso di mitopoiesi si parla e basta: qua il mito lo si fa, invece» ha scritto Marco Rovelli su L’Unità. Ti chiedo: Come si fa a fare un mito, o meglio: come si racconta un mito?
Perché come dice anche Diana ad Alessio nel romanzo: «non sarà facile ma si tratta proprio di questo, uomo, raccontare».  
(A) Ah, brava: questa è una citazione che mi piace… lì sta il punto.
Il mito è un evento storico che acquista col passare degli anni, dei secoli, una valenza fondativa e diventa, quindi, un mito fondante. Tutti i miti ovviamente poi sono trasfigurati ma hanno una base storica e poi diventano una base, una credenza condivisa che fa da collante a una comunità nuova. Quindi, penso che il mito, se lo volessimo creare oggi, dovrebbe essere un mito fondatore, condiviso da una comunità, altrimenti non avrebbe questa valenza, non avrebbe questa importanza. Penso poi alla parola “mitica/o” che è stata anche svilita nel contemporaneo: mitiche sono le All Star, mitico è un gruppo rock… e non è questo il mito, per questo quando si parla di mito bisogna incentrarlo in una dimensione storico-etica.

(T) Bertante è “un visionario in lingua media” come ha scritto Giglioli sul Manifesto? E in generale, cosa pensi della definizione di “lingua media” e della funzione, soprattutto, della lingua, che sia media o che abbia la connotazione che credi sia quella più giusta, nella narrativa contemporanea? 
(A) Allora: credo che la forma e il contenuto abbiano pari dignità e né l’uno né l’altro vadano sottovalutati. Sbilanciarsi in maniera spropositata sulla forma ci farebbe entrare nell’ottica del manierismo, che a me non interessa.
Per quanto riguarda la recensione di Giglioli, parlava di “lingua media” in riferimento alla lingua altissima novecentesca che non ha più senso, forse. Però molti altri critici lo hanno criticato per questa definizione dicendo che è tutt’altro che “media” la lingua di Nina dei Lupi perché è una lingua mimetica rispetto a quello che racconta e credo di essere d’accordo con questa seconda definizione perché ho lavorato per sottrazione. Giglioli ha ragione, giustamente parla di paratassi, lingua scarna… ma non è una conseguenza: è una scelta precisa. Ho lavorato coscientemente per sottrazione per arrivare a quel gelo, a quella crudezza, a quella pietrosità (come ha detto qualcun altro): ho dovuto lavorare per sottrazione.
È stato un preciso percorso stilistico: me lo pongo il problema della lingua, sì: per me la lingua è importante nel percorso narrativo di uno scrittore ma non deve diventare una costrizione, però.

(T) Qual è il personaggio-chiave del romanzo? Verrebbe da dire Nina, ma forse non è così. E qual è invece quello a te più caro?
(A) Per te qual è il personaggio-chiave del romanzo?
(T) Io avevo pensato a Diana, a dire il vero...
(A) Il personaggio-chiave, infatti, è proprio Diana. È la chiave di volta tra il mondo vecchio e il mondo nuovo. Il mondo vecchio basato sulla banalizzazione del presente che porta alla sciagura, il mondo nuovo, basato su nuove comunità autarchiche, che usa il linguaggio magico per interpretare la natura. Diana è il linguaggio magico: le sue parole le ho prese (quelle delle sue estasi oniriche…), direttamente da canti gaelici altomedievali: La battaglia degli Alberi, soprattutto, dello pseudo-bardo Taliesin che trovi anche in Robert Graves per la Dea Bianca: sono citati uguali, puoi trovarli lì.
Il personaggio di Diana è, quindi, il personaggio-cerniera tra il vecchio e il nuovo, anche Alessio, probabilmente è il più importante insieme a Nina, fa parte del Vecchio Mondo, anche la sua lotta coi predoni è una lotta del vecchio mondo. Lui sarà l’ultimo e infatti sarà considerato il Fondatore, però è del vecchio mondo, ed è sì: il personaggio a cui sono più legato.

(T) Una domanda che era anche nelle altre interviste
Si dice che un'opera parta sempre da una bibliografia intima: storie e letture che ispirano, anche inconsapevolmente. Quale è stata la tua bibliografia?
Mariapia Veladiano che abbiamo sentito sullo scorso numero di Vox ci ha parlato di
«amori bellissimi, che rovesciano la vita: Marguerite Yourcenar, Maria Bellonci e Francesco Biamonti». Quali sono stati tuoi?

(A) Oh, cos’ha citato la Veladiano! Per l’altro romanzo sicuramente Biamonti mi ha influenzato tantissimo, per Al diavul.
Però gli autori che mi hanno condizionato, su cui mi sono formato, sono: Dostoevsky; sì: anche la Yourcenar; Romain Gary; Irvine Welsh, il romanzo Colla, su tutti: fondamentale.
Per quanto riguarda Nina dei Lupi: a parte la Strada di Mc Carthy, fondamentale per chiunque voglia parlare di post-apocalittico, quelli che mi hanno influenzato sono tutti quelli che riguardano l’antropologia culturale, tutti i libri dell’immaginario legato alle leggende dell’arco alpino, a riti celtici e direi sicuramente anche l’opera dell’archeologa lituana Marija Gimbutas.

(T) Ultime due cose: lo Strega? e: quale pensi che sia il ruolo dello scrittore oggi?
(A) Il Premio Strega è il Premio più importante in Italia ed è un premio che dà molta visibilità. E come tutte le competizioni ha una fase ludica, anche divertente; ha una fase molto tradizionale, con dei vecchi riti, quasi arcaici; poi ha una fase più “politica”: quella che riguarda meno lo scrittore, che riguarda più… gli editori, e diciamo che è una fase molto importante: noi… non possiamo fare altro che partecipare.

Per quanto riguarda il ruolo dello scrittore, adesso, in questo periodo storico, deve riacquistare una coscienza etico-politica. Lo scrittore degli anni novanta, il Cannibale, che guardava in superficie con romanzi di formazione, parlando di consumismo, prodotti, commercio, …  forse non funziona più: siamo in una società che sta evolvendo troppo in fretta per non riuscire ad andare a cercare le cause e non solo i sintomi di quello che sta succedendo.
Ecco: lo scrittore che analizza i sintomi, a me non interessa.

Bene, ottimo: ti ringrazio.
Tamara Baris


Alessandro Bertante è nato ad Alessandria nel 1969, da sempre vive a Milano. Nel 2000 ha pubblicato il romanzo Malavida (Leoncavallo Libri), nel 2003 ha curato per la Piemme la raccolta di racconti 10 storie per la pace, nel 2005 è uscito il saggio Re Nudo (nda Press), nel 2007 il saggioContro il '68 (Agenzia x), nel 2008 il romanzo Al Diavul (Marsilio), vincitore del Premio Chianti e del Premio città di Bobbio. Insegna alla naba ed è condirettore artistico del festival letterario Officina Italia.
Alessandro Bertante, Nina dei lupi, Marsilio, 2011, pp. 224

intervista a Viola Di Grado, Vox Studenti, maggio 2011

Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado si aggiudica il Premio Campiello – Opera Prima.

Lo scorso 28 maggio Viola Di Grado, scrittrice esordiente in corsa per lo Strega si è aggiudicata con il suo Settanta acrilico trenta lana il Premio Campiello - Opera Prima.

Queste le motivazioni della giuria, composta tra gli altri da Gianluigi Beccaria, Riccardo Calimani, Philippe Daverio, Nicoletta Maraschio, Salvatore Silvano Nigro, Ermanno Paccagnini:
«Si impone subito per l’invenzione linguistica, spinta fino alla visionarietà. L’ambientazione in un quartiere periferico di Leeds, perennemente e tristemente invernale, tra personaggi tutti al limite della normalità, giustifica l’oltranza linguistica. Si capisce che il romanzo è di una spiccata originalità ed è contemporaneamente racconto di una non comune crudeltà. Per essere l’opera prima di una giovanissima scrittrice il romanzo è di grande maturità sia per struttura che per costruzione linguistica».

Un esordio fortunato, quindi, quello della Di Grado. Nel passato numero del giornale abbiamo inaugurato qualche pagina dedicata ai romanzi e agli scrittori finalisti del Premio Strega di quest’anno con un’intervista a Mariapia Veladiano (La vita accanto, Einaudi), continuiamo anche in questo numero ospitando di séguito le risposte che ci ha dato Viola.


Com’è nata la storia di Camelia, le sue ossessioni e quelle degli altri personaggi? Perché hai sentito il bisogno di raccontare quel mondo così cupo, così lacerato?
È nata dall’idea di un buco al di là del tempo in cui fossero cadute tutte le parole. Il buco iniziale che dà vita al trauma delle protagoniste e dissemina una serie infinita di suoi inquietanti correlativi: l’oblò della lavatrice, i buchi fotografati ossessivamente dalla madre, la caverna in cui Camelia consuma una relazione violenta con il fratello pazzo del ragazzo che ama… e dal desiderio di usare i caratteri cinesi come veri e propri personaggi, che possano salvare la vita di qualcuno.

Si dice che un'opera parta sempre da una bibliografia intima: storie e letture che ispirano, anche inconsapevolmente.
Quale è stata la tua bibliografia? Di quali storie non faresti a meno? Lo abbiamo chiesto anche a Mariapia Veladiano che ci ha parlato di «amori bellissimi, che rovesciano la vita: Marguerite Yourcenar, Maria Bellonci e Francesco Biamonti», confessandosi una bibliomane sin da bambina.

Sono feticista di Virginia Woolf e della letteratura giapponese antica. Sono una lettrice intollerante, ma ritengo che anche leggere libri brutti possa servire a qualcosa, è come un vaccino: immetti nel tuo cervello una piccola quantità di bruttezza per accertarti che non produrrai mai nulla di simile.

«La lingua è un crematorio incosciente che vuole condividere e invece distrugge», scrivi. E la lingua del romanzo, qual è? quale dovrebbe essere, qual è quella che insegui?

Volevo «dimenticare il linguaggio», come dice Zhuangzi, filosofo cinese. Nel senso di usare le parole come se fossero oggetti iniziali, crudi, da risignificare. È questa la lingua che cerco, nuova, che produca sfasamenti di senso.


Quando si diventa scrittori, scrivere diventa un dovere? O resta un piacere?

Per me resta un piacere terribile.

Che effetto fa essere tra i finalisti del Premio Strega?
Un bell’effetto, direi…


Grazie, Viola.

Tamara Baris

 
Viola Di Grado ha ventitré anni. 
È nata a Catania, si è laureata in lingue orientali a Torino e studia a Londra.