Ho provato a recensire Fantasmagonia, di Michele Mari ((pp. 140-141)
Michele Mari, Fantasmagonia, Torino, Einaudi, 2012, pp. 164, € 18,00
Nell'ultima delle trentaquattro prose brevi, Fantasmagonia,
eponima della raccolta che la contiene, Michele Mari fa una lista
delle cose, o delle condizioni necessarie alla nascita di un
fantasma: a una Fantasmagonia, appunto.
Passando in rassegna i diciannove punti che la compongono e
ripensandoli in relazione alla lettura appena ultimata, e agli altri
suoi libri letti in precedenza, viene da pensare che Mari sia uno
scrittore fantasma. Le brevi prose che compongono questa raccolta
necessiterebbero ognuna di una recensione a sé: ognuna meriterebbe
d'essere ricondotta alla trama dei legami che intercorrono tra questi
racconti e i libri precedenti, o ancora i tratti che li legano alle
sue letture, alla sua bio-bibliografia, alla vita fantasma che ci si
costruisce leggendo storie e vite di altri. Perché è anche così
che nasce una voce fantasma.
Mari è la voce di Piero di Cosimo (che dice «dua»;
«ovo»; «capegli»),
è Cecco Angiolieri che sfida in tenzone poetica Folgóre
da San Gimignano (Cecco mette a punto il suo furore); ma è
anche il sé stesso che era: un adolescente che gioca a carte col
nonno, mentre il Milan di Rivera perde il suo scudetto all'ultima
giornata e tutto per colpa di una bolla d'aria in una bottiglia.
Perché una voce fantasma è una voce che dà voce a tutti i sé
stessi che è, che è stata, e che continuerà a essere.
Se tutto questo fosse una proporzione matematica potremmo dire che il
fantasma : casa = lo scrittore fantasma : letteratura. L'esistenza di
uno scrittore-fantasma però non è matematica, ma non è neanche
opinabile. Ha regole precise e immutabili. Una delle cose essenziali
alla formazione di un fantasma è proprio l'immutabilità. Il
fantasma non cambia e non deve cambiare: come i miti non ha bisogno
di piegarsi al presente, anzi «lo
spregio sovrano del presente e del mondo lo contraddistingue»
(p. 144).
La letteratura è, dunque, la casa
(o la tana) di Michele Mari, che si specchia – senza la pesantezza
dei contorni del proprio corpo – nelle storie degli altri e le
riflette: Mari che è Joseph
K. alla ricerca della
ragione della sua legnosità; Mari che postilla un famoso «soffitto
viola»
(Tre
postille a un soffitto viola)
e che racconta di Charles
Lutwidge
Dodgson che si
salva dall'«ontosa
balbuzie»
e crea bellezza (e meraviglie), guarendo dalle parole grazie alle
parole, giocando col significante e liberandosi grazie a filastrocche
nonsense, rima e metro: «con
la rima e il metro – la lingua vien dietro – con il metro e la
rima – io parlo assai prima»
(p. 76).
Il metro è tutto. E il numero è
un'ossessione, ma a volte salvifica, come quella di Marcellino che
indugia nel «piacere
dell'addizione»
(p. 12), fantasma
anche lui, perché un'altra delle condizioni della Fantasmagonia
è «l'aritmomania»:
il fantasma racconta e conta, nella sua prigione, cerca sempre la
«ratio
sulla quale imbastire il salvifico esorcismo»
(p. 149).
Tuttavia la ratio
certo non sta solo nei numeri, ma anche nelle lettere, nelle parole.
Nell'uso cosciente che si fa della lingua. Uno dei racconti di
Fantasmagonia
si intitola Ballata
triste di una tromba,
ed è anche la ballata
triste di una lingua:
malinconica e poetica, che si muove su più registri. C'è il polo
alto («speco»;
«dulcedo»;
«bontade»),
e quello basso e risibile, quello – ad esempio – dei tanto
detestati alterati in -ino, tic linguistici usati e abusati
(«primini»,
«assaggini»,
«stuzzichini»
p. 123). E ci sono le onomatopee («zamfete»
p. 136), elementi che, insieme a trivialismi (si veda qui Il
sogno del fecaloma) e a
settentrionalismi (in Crapa
pelada) troviamo da
sempre nella prosa plurivoca di Mari.
La voce di uno scrittore fantasma è la voce di una menzogna, se è
vero che la letteratura è menzogna; è falsa, se è vero che una
menzogna è falsità; ma Mari non è mai un falsario e la sua voce
non è un falsetto, piuttosto un «sussurro»
(settimo punto della Fantasmagonia), se è vero che – invece
– il fantasma interloquisce con sé stesso e «più
detesta il valore mondano, avvertito ora come boato cosmico ora come
fastidiosissimo brusire, più egli abbasserà il proprio volume di
voce» (p. 148).
La voce di un fantasma è il suo doppio, l'altro io, o la sua metà:
non è facile capire dove inizi la casa e dove finisca il fantasma,
ci spiega Mari; non è facile capire dove inizi lo scrittore fantasma
e dove finisca, perché il fantasma «tende
a dissolvere il principio che lo individua»
(p. 154). Così, Mari
ha instaurato un rapporto obliquo con la tradizione («e
non si può dirla in modo obliquo, questa verità, con mediazioni
eleganti?», p. 130) che
conosce e domina, e nella sua voce-tana ha assunto e rielaborato con
naturalezza l'artificiosità; ha iniziato a parlare – perché
comunque gli scrittori parlano – naturalmente in quel modo, ha
indossato con disinvoltura un abito elegante, come fosse quello da
portare tutti i giorni: l'abito non farà il monaco – a volte sì –
ma spesso fa l'abitudine.
Slontanato, straniato, viscerale, Mari senza bisogno d'accordarsi la
voce racconta storie di mostri e fantasmi, che sono in realtà storie
della mente, di crepe e ossessioni del pensiero, di deformazioni e
paure («tu sei nato dalla
mia angoscia, te la sei sempre presa, la mia energia»
p. 4).
Paure di oggi, e di ieri. Fantasma
è chi vive il proprio passato, anzi chi continua a viverlo, anche
nel presente, come unica dimensione possibile, come appiglio e
approdo; chi vive la propria vita come fosse una casa, e ogni attimo
come fosse una cosa. Tutto assume una precisa connotazione tutto è
quello che è, ed è l'alone che lo circonda. E gli aloni a volte
fanno male, anche se senza corpo, senza sostanza, senza peso. Anche
il titolo Fantasmagonia è
circondato da un alone, e l'alone è la sua metà: l'agonia, perché
Fantasmagonia è
una cosmogonia fantasmatica, è una rapida e fantastica
fantasmagoria, ma è anche l'agonia del fantasma, il suo male.
I fantasmi non si salvano, i
fantasmi sono angoscia e paura, colpa e tormento. I fantasmi sono
anime. Giorgio Manganelli scrisse che la letteratura «quando
getta via la propria anima trova il proprio destino»,
Michele Mari gettando via le sue anime, lo ha trovato un'altra volta.