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sabato 29 dicembre 2012

Recensione a Fantasmagonia, La Libellula, dicembre 2012

Numero 4 della rivista di italianistica La Libellula, lo trovate on line, qui: http://www.lalibellulaitalianistica.it/blog/

Ho provato a recensire Fantasmagonia, di Michele Mari ((pp. 140-141)

Michele Mari, Fantasmagonia, Torino, Einaudi, 2012, pp. 164, € 18,00 



 Nell'ultima delle trentaquattro prose brevi, Fantasmagonia, eponima della raccolta che la contiene, Michele Mari fa una lista delle cose, o delle condizioni necessarie alla nascita di un fantasma: a una Fantasmagonia, appunto.
Passando in rassegna i diciannove punti che la compongono e ripensandoli in relazione alla lettura appena ultimata, e agli altri suoi libri letti in precedenza, viene da pensare che Mari sia uno scrittore fantasma. Le brevi prose che compongono questa raccolta necessiterebbero ognuna di una recensione a sé: ognuna meriterebbe d'essere ricondotta alla trama dei legami che intercorrono tra questi racconti e i libri precedenti, o ancora i tratti che li legano alle sue letture, alla sua bio-bibliografia, alla vita fantasma che ci si costruisce leggendo storie e vite di altri. Perché è anche così che nasce una voce fantasma.
Mari è la voce di Piero di Cosimo (che dice «dua»; «ovo»; «capegli»), è Cecco Angiolieri che sfida in tenzone poetica Folgóre da San Gimignano (Cecco mette a punto il suo furore); ma è anche il sé stesso che era: un adolescente che gioca a carte col nonno, mentre il Milan di Rivera perde il suo scudetto all'ultima giornata e tutto per colpa di una bolla d'aria in una bottiglia. Perché una voce fantasma è una voce che dà voce a tutti i sé stessi che è, che è stata, e che continuerà a essere.
Se tutto questo fosse una proporzione matematica potremmo dire che il fantasma : casa = lo scrittore fantasma : letteratura. L'esistenza di uno scrittore-fantasma però non è matematica, ma non è neanche opinabile. Ha regole precise e immutabili. Una delle cose essenziali alla formazione di un fantasma è proprio l'immutabilità. Il fantasma non cambia e non deve cambiare: come i miti non ha bisogno di piegarsi al presente, anzi «lo spregio sovrano del presente e del mondo lo contraddistingue» (p. 144).
La letteratura è, dunque, la casa (o la tana) di Michele Mari, che si specchia – senza la pesantezza dei contorni del proprio corpo – nelle storie degli altri e le riflette: Mari che è Joseph K. alla ricerca della ragione della sua legnosità; Mari che postilla un famoso «soffitto viola» (Tre postille a un soffitto viola) e che racconta di Charles Lutwidge Dodgson che si salva dall'«ontosa balbuzie» e crea bellezza (e meraviglie), guarendo dalle parole grazie alle parole, giocando col significante e liberandosi grazie a filastrocche nonsense, rima e metro: «con la rima e il metro – la lingua vien dietro – con il metro e la rima – io parlo assai prima» (p. 76).
Il metro è tutto. E il numero è un'ossessione, ma a volte salvifica, come quella di Marcellino che indugia nel «piacere dell'addizione» (p. 12), fantasma anche lui, perché un'altra delle condizioni della Fantasmagonia è «l'aritmomania»: il fantasma racconta e conta, nella sua prigione, cerca sempre la «ratio sulla quale imbastire il salvifico esorcismo» (p. 149).
Tuttavia la ratio certo non sta solo nei numeri, ma anche nelle lettere, nelle parole. Nell'uso cosciente che si fa della lingua. Uno dei racconti di Fantasmagonia si intitola Ballata triste di una tromba, ed è anche la ballata triste di una lingua: malinconica e poetica, che si muove su più registri. C'è il polo alto («speco»; «dulcedo»; «bontade»), e quello basso e risibile, quello – ad esempio – dei tanto detestati alterati in -ino, tic linguistici usati e abusati («primini», «assaggini», «stuzzichini» p. 123). E ci sono le onomatopee («zamfete» p. 136), elementi che, insieme a trivialismi (si veda qui Il sogno del fecaloma) e a settentrionalismi (in Crapa pelada) troviamo da sempre nella prosa plurivoca di Mari.
La voce di uno scrittore fantasma è la voce di una menzogna, se è vero che la letteratura è menzogna; è falsa, se è vero che una menzogna è falsità; ma Mari non è mai un falsario e la sua voce non è un falsetto, piuttosto un «sussurro» (settimo punto della Fantasmagonia), se è vero che – invece – il fantasma interloquisce con sé stesso e «più detesta il valore mondano, avvertito ora come boato cosmico ora come fastidiosissimo brusire, più egli abbasserà il proprio volume di voce» (p. 148).
La voce di un fantasma è il suo doppio, l'altro io, o la sua metà: non è facile capire dove inizi la casa e dove finisca il fantasma, ci spiega Mari; non è facile capire dove inizi lo scrittore fantasma e dove finisca, perché il fantasma «tende a dissolvere il principio che lo individua» (p. 154). Così, Mari ha instaurato un rapporto obliquo con la tradizione («e non si può dirla in modo obliquo, questa verità, con mediazioni eleganti?», p. 130) che conosce e domina, e nella sua voce-tana ha assunto e rielaborato con naturalezza l'artificiosità; ha iniziato a parlare – perché comunque gli scrittori parlano – naturalmente in quel modo, ha indossato con disinvoltura un abito elegante, come fosse quello da portare tutti i giorni: l'abito non farà il monaco – a volte sì – ma spesso fa l'abitudine.
Slontanato, straniato, viscerale, Mari senza bisogno d'accordarsi la voce racconta storie di mostri e fantasmi, che sono in realtà storie della mente, di crepe e ossessioni del pensiero, di deformazioni e paure («tu sei nato dalla mia angoscia, te la sei sempre presa, la mia energia» p. 4).
Paure di oggi, e di ieri. Fantasma è chi vive il proprio passato, anzi chi continua a viverlo, anche nel presente, come unica dimensione possibile, come appiglio e approdo; chi vive la propria vita come fosse una casa, e ogni attimo come fosse una cosa. Tutto assume una precisa connotazione tutto è quello che è, ed è l'alone che lo circonda. E gli aloni a volte fanno male, anche se senza corpo, senza sostanza, senza peso. Anche il titolo Fantasmagonia è circondato da un alone, e l'alone è la sua metà: l'agonia, perché Fantasmagonia è una cosmogonia fantasmatica, è una rapida e fantastica fantasmagoria, ma è anche l'agonia del fantasma, il suo male.
I fantasmi non si salvano, i fantasmi sono angoscia e paura, colpa e tormento. I fantasmi sono anime. Giorgio Manganelli scrisse che la letteratura «quando getta via la propria anima trova il proprio destino», Michele Mari gettando via le sue anime, lo ha trovato un'altra volta.
Tamara Baris







giovedì 27 dicembre 2012

lunatici



«lo suo colore è variato dal colore de l'altre stelle, e ha colore bianco quasi argenteo, e ha ombre entro essa; le quali ombre so' desegnate a similitudine del viso umano, secondo quello che vegono e ponono li savi desegnatori quando la desegnano»
Restoro d'Arezzo





martedì 25 dicembre 2012

(t)-writ(t)er: 6 in 140.

I consigli di lettura di Andrea Gentile.



Credo siano gli ultimi consigli di lettura della rubrica su Vox Studenti. Forse la rubrica, in qualche modo, in un altro posto, sopravviverà.

E sono molto belli.
T.

domenica 1 luglio 2012

Tu chiamale, se vuoi, interpunzioni.

«Siamo costretti a rivelare che il punto e virgola ha dei nemici. In questo mondo non c'è pace per nessuno. E quei nemici sono feroci a tal segno che vorrebbero morto e sepolto il povero punto e virgola. Quindi, se ciò accadesse, rimarrebbero nell'esercizio delle loro funzioni solo il punto, i due punti e la virgola».
Così scriveva negli anni Trenta del Novecento Zama. E oggi?



Posto che ho sempre trovato molto divertenti gli atteggiamenti di chi vede la questione lingua come una guerra e/o un campo di battaglia e/o un cimitero e che sicuramente qualcuno leggendo i pensieri di Zama già stava facendo ciondolare la testa e pensava: «ah, sì, sì e vedessi oggi il punto e virgola come sta...», direi: (in un certo senso) la punteggiatura qualche nemico lo ha, ma per fortuna ha anche qualche amico.
Pensiamo per esempio al successo editoriale di cui gode dal 2003 il Prontuario di punteggiatura di Bice Mortara Garavelli – prestigio della studiosa e del suo studio, certo – ma anche una necessità, per certi versi: richiesta di regole precise, in una zona della lingua dal debole statuto normativo, se è vero che non solo gli scriventi acerbi hanno problemi interpuntivi.
Detta così sembrerebbe quasi una malattia. In realtà, lo scarso dominio della punteggiatura ha a che vedere col rapporto che si ha con la pagina scritta. Un rapporto occasionale – spesso – non solo per persone lontane dalla scrittura ma anche per chi dovrebbe frequentarla assiduamente.
Esperienza personale: non me ne vogliano a male i miei colleghi, ma ricordo sempre con piacere uno degli esercizi che ci venivano sottoposti al corso di Editing informatico e cura del testo: una porzione di testo totalmente priva di segni paragrafematici in cui, inutile dirlo, bisognava reinserire tutto quello che mancava.
Ho visto cose che voi umani: ho visto volti terrorizzati; ho visto gente che non sapeva dove mettere le mani, o meglio: non sapeva dove mettere i punti, le virgole, il punto e virgola.
E, magari, in qualcuno dei nostri esercizi, il risultato finale sarà stato simile a quello dell'uso interpuntivo di alcuni partecipanti a un concorso letterario che, nelle loro composizioni, avevano trasformato la punteggiatura in «una vaga disseminazione di virgole e di punti e di punti e virgole, buttati a caso qua e là, dove vanno vanno, come capperi nella salsa tartara»: è un'annotazione di Gadda: uno che sicuramente con la scrittura ci sapeva fare, c'è poco da dire.
Tralasciando i capperi e la salsa tartara, e per non rischiare di fare un minestrone, direi: ci vorrebbe un saggio utile, il punto è questo: ci vorrebbe un saggio utile che piaccia agli addetti ai lavori sì, ma che convinca anche gli allergici alla punteggiatura.
Un saggio che aiuti a buttare i capperi al posto giusto nella salsa tartara.
Dovrebbe essere breve (perché magari chi ha bisogno di regole non ha tempo da perdere, eh); non monotono (perché magari chi sente il dovere di ribellarsi alle regole non ama che gli si dicano in un certo modo: ah, io gli accademici non li sopporto!); con un taglio diverso, insomma, che convinca anche i più pigri.






Quel saggio ora c'è: Questo è il punto, di Francesca Serafini, storica della lingua e sceneggiatrice, è esattamente quello che serve ai malati di interpunzione (e non solo): è breve; non è monotono ed è diverso da molte altre scritture dal taglio saggistico-argomentativo perché è un saggio in cui, sin dall'inizio, si manifesta in maniera chiara una cosa che di solito viene tenuta nascosta in questi casi: il gusto dell'autore.
Perché se «i linguisti non prescrivono mai», e «semmai descrivono», la Serafini descrive e – anzi – volendo, narra. Una linguista che gioca a carte scoperte sin dall'inizio e instaura col lettore un dialogo, evitando il monologo del saggista, stando ben attenta a non lasciare solo il lettore, a non escluderlo dalle sue pagine, anzi fa di tutto per renderlo partecipe, come quando ammonisce i più frettolosi sulla lettura dell'introduzione: non l'hai letta, lettore? Leggila. Scrive, infatti: «se siete arrivati a questa pagina senza passare per l'introduzione, non potete avere idea di quanto possa essere sfacciatamente ambizioso questo libro», il malato di punteggiatura e l'intollerante alle introduzioni dovrà, invece – in questo caso – somministrarsi anche l'introduzione.
Sfacciatamente ambizioso, si diceva. Già. E la sfacciataggine è dovuta proprio forse al fatto di giocare a carte scoperte. Giocare a carte scoperte non è tutto, ma forse è il 95% in questo saggio.
Così esemplificare citando Urban Chaos (videogioco); Scrubs (serie televisiva) accanto a Manganelli, Carver, Leopardi, Poe, Sanguineti può dare un taglio diverso alla questione punteggiatura, taglio che magari avvicina alla trattazione anche persone che se esistesse una petizione contro l'abolizione del punto e virgola la firmerebbero e anche in preda a crisi isteriche (ma che v'ha fatto, poi, questo punto e virgola?). Perché di fronte ai fatti di lingua partono in molti spesso incendiari e fieri e alla fine arrivano tutti pompieri, come diceva più o meno quello.
Ecco: che arriviate incendiari, o pompieri non è importante: l'importante è arrivare da qualche parte e sapere come / cosa fare, senza ambiguità.
Magari dimenticando qualche polverosa nozione, inesatta, che vi è rimasta in testa dalla vostra esperienza scolastica, e ripassando velocemente le quattro funzioni della punteggiatura: segmentatrice; sintattica; emotivo-intonativa; funzione di commento o metalinguistica.
Dopo aver ripassato le quattro funzioni, l'autrice fa «Il punto della situazione» fornendo una pratica «Guida in forma di glossario» organizzata in lemmi corredati dall'elenco delle funzioni principali dei segni, e relativi esempi. Utile. E dopo aver fatto ordine, si concentra su «Appunti di stile»: doveroso. Regole sì, e gusto della scelta. Senza improvvisarsi Gadda, magari, se si è dei poveri comuni mortali. Usare la punteggiatura, come si deve, perché è – come scrive la Serafini – la cloche della scrittura, è uno strumento sintattico, e se usata bene dà soddisfazioni, se è vero che – citando Leopardi – «una sola virgola ben messa dà luce a tutto il periodo», o ancora, come ricorda efficacemente la citazione di Isaak Babel sul retro della copertina del libro: «non c'è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto».
Francesca Serafini, Questo è il punto. Istruzioni per l’uso della punteggiatura, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 137, 15 €.




Tamara Baris


PS Come vi dicevo, consigli di lettura: volendo, seguendo il gusto personale della Serafini, se proprio doveste sentirvi ancora allergici alla punteggiatura, per evitare che possa comparirvi qualche malattia della pelle che magari potrebbe manifestarsi con presenza di bolle a forma di punto e virgola, potreste viaggiare sul secondo binario del saggio e segnare una lista di letture per la prossima estate, per esempio:
  • Tommaso Pincio, Cinacittà;
  • Giorgio Manganelli, Nuovo commento;
  • Giacomo Leopardi, Operette morali;
  • Chuck Pahlaniuk, Soffocare;
  • Michele Mari, Verderame;
  • Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa.
Perché ho scelto questi e in questo ordine tra i tanti citati in bibliografia? Gusto personale, punto.





giovedì 14 giugno 2012

I consigli di lettura di Sergio Garufi


Accordami i polsi


Accordami i polsi.

Avevo i polsi scordati e non l'avevo capito.

Gibo dopo essere stato per ore fermo a fissare la libreria giunse a una conclusione: aveva i polsi scordati.
Avere i polsi scordati vuol dire essenzialmente:
  1. non avere nessun problema di natura fisica;
  2. non essersi trasformato in uno strumento musicale;
  3. avere solo un problema: non riuscire più a scrivere.

Questo è il punto. Gibo ha i polsi scordati, Gibo non riesce più a scrivere. Gibo ha bisogno di un accordatore, ma non lo trova.

L'accordatore per Gibo è sempre stato:
  1. uno strumento indispensabile;
  2. un oggetto troppo piccolo per non smarrirsi sotto la sua collezione di camicie a quadri, nel suo disordine, sotto il suo letto;
  3. una cosa che ha perso mesi fa e non trova più.

Gibo non suona più.
Gibo non scrive più.

Gibo ha evidentemente dei problemi al momento, e sono:
  1. che non scrive più;
  2. che non suona più.

Gibo riflette; guarda la libreria per ore e ammira gli Adelphi ordinati per sfumature di colore e pensa: come si accordano i polsi?
Ma i polsi si accordano facilmente?
Ma i polsi – alla fine di tutto – si accordano?

Gibo non è d'accordo col resto del gruppo, lo sa.
Forse essenzialmente è proprio questo il punto: non essere d'accordo.
E non si è d'accordo col resto della band come ci si può accordare?

Non ci si accorda, questo è il punto.

Gibo sente un formicolio alle mani.
Sono ferme.
Gibo sente una stretta ai polsi: non sono liberi. Gibo così non sa scrivere.
Questo è il punto.

Gibo alza gli occhi al soffitto e vede un ragno nero.
Il ragno ha una brutta vita, pensa Gibo.
Quel ragno tra poco morirà, pensa Gibo.
E gli tira una ciabatta, e il ragno muore.

Gibo si sente colpevole.
E per giunta, dopo aver ucciso il ragno, ha ancora i polsi scordati: uccidere ragni non aiuta a vivere, pensa Gibo.

Gibo pensa che uccidere i ragni non aiuti a vivere e lo appunta proprio così: uccidere i ragni non aiuta a vivere su un foglietto giallo, scritta nera, lo fissa sulla bacheca di sughero, con una puntina blu.

Ma Gibo ha ancora i polsi scordati.
Quindi pensa che neanche scrivere stronzate su foglietti gialli non aiuta:
  1. a vivere;
  2. ad accordare i polsi.

Gibo è davvero confuso. E non sa più come accordarsi i polsi.
Ma se li accorderà. Questo sì che lo sa.



lunedì 30 aprile 2012

da La banda della tisana.


hemerocharacter: Elsa pensa #1 (se ti cancello che mi lasci?)

Spegne la tv. 
Spegnere la tv è un gesto che le procura piacere. 
Piacere? Quale? Come? Dove? Perché? dov'è il piacere in questa vita? dove?
Non c'è. Punto. Elsa pensa che il piacere sia finito: sia finito in amore. sia finito sul lavoro. sia finito. punto. perché il piacere non è indefinito, ma appunto 'finito'. Punto. 
Finito (sussurra tra sé e sé dopo aver premuto il pulsante di spegnimento sul telecomando).
Si avvicina allo schermo. Ci si specchia: si guarda su quello specchio scuro e pensa. 
Elsa pensa che qualcosa non va. Non va più. Elsa non va più a lavoro felice. Elsa non va più dal parrucchiere e i suoi capelli neri e ricci ne avrebbero davvero bisogno. Invece sono un cespuglio, i capelli.
I capelli sono un cespuglio che copre i pensieri (neri pure quelli) che ci stanno sotto.
I pensieri stanno sotto i capelli, e sono nascosti (tu che i capelli non li hai dove nascondi i tuoi pensieri? Dove? Eppure non riesco più a capire cosa pensi, tu senza capelli che ti nascondono i pensieri).

Elsa pensa che questo divano sia da rassettare, come pure la cucina, la casa. Tutto. 
Come pure i pensieri, i pensieri e tutto.
La casa è lo specchio di chi ci abita, inutile specchiarsi nello schermo della tv per nascondersi il più delle cose, ché quello specchio non è, ché quello è uno specchio nero e sul nero poco si vede, e il nero sfina, e il nero è elegante e sta bene su tutto e con tutto. E tutto.

E tutto va strano.
Mica male, no. Non va male. 
Ma va strano.

Elsa pensa che il momento in cui si spegne la tv è un momento di potere.
Potere.
Poterlo fare.
Spegnere.
Spento.
Punto.
Posso.
Potere.

Posso potere.
Posso volere.
Voglio potere.
Voglio spegnere.
Vorrei spegnere l'amore.
L'amore, che parola è 'amore'. è desemantizzata quanto cazzo per quanto le riguarda, è sicuro una delle più usate. che cazzo di parola è 'amore'. 
Pum.
Spegnere amore.
Volere amore.
Non potere amore.
Non potere.
Spegnere.
Non si spegne.
Punto.
Non posso.
Non voglio?

Elsa pensa che vorrebbe avere un telecomando tra le mani per spegnerti subito. Spegnere l'idea che ha di te. Nella mente. Cancellarti. L'idea che ormai si è fatta, l'idea che forse da sempre si è fatta. Ma noi amiamo un'idea? Vorrebbe ritagliare, Elsa pensa, la tua figura dal suo mondo. 
Pum. Manca.
Poi mancheresti.
Mancherebbe la tua figura.
Come nei giochini con la carta quando ritagli lungo la linea.
Se ti ritagliasse lungo la linea, Elsa, cosa le resterebbe? Già lo sa: lo spazio vuoto (che è quello che ha sempre avuto in mano). Lo spazio vuoto. Punto. Lo spazio vuoto. Punto. Perché la figura se l'è presa qualcun altro. 
Qualcun altro s'è preso la figura.
E la userà a suo piacimento.
A suo piacimento.
Suo e suo.
Suo. Loro.
Elsa pensa che in fin dei conti se ne frega.
E forse può spegnere.
Potere.
Volere.
Amore... via.
(ma poi? se ti cancello che mi lasci?)

HD

venerdì 27 aprile 2012

da La banda della tisana


I dolori del giovane welter #1

Il giovane welter è solo con la sua rabbia e la puzza dello scantinato. E il vuoto. E il silenzio. E il nulla.
Lo scantinato è vasto, il giovane welter è incazzato. Prima ha incontrato Ada, ma non gli importa. Il test è andato bene, ma non conta niente.
Il giovane welter (al buio) fa luce solo tra i ricordi e ripassa gli insegnamenti di Calogero, o quello che si ricorda. Gli insegnamenti di Calò il Maestro: solo Calò è maestro.
Calò dice che c’è un tipo di pugno che è diretto. Se il giovane welter colpisce col pugno diretto, il giovane welter colpisce il viso, distendendo il braccio. Il giovane welter sa che la torsione della gamba è importante per sfruttare al meglio la potenza del braccio. Il giovane welter torce la gamba.
Se il giovane welter colpisce con un gancio, ruota la spalla, mantenendo il braccio piegato (a uncino).
Se il giovane welter colpisce con un montante, il giovane welter colpisce dal basso verso l’alto. Colpisce il mento. Vuole colpire il busto. L’addome. Il giovane welter colpisce il sacco (quello c’è ora).
Il giovane welter riattiva il Codex, attiva il Pro.Kick, seleziona l'ologramma di Marta. Il giovane welter inizia a picchiare, a fracassare le ossa inesistenti dell’ologramma di Marta.
Il giovane welter questa mattina ha passato il test, forse col massimo dei voti: poco importa.
Il giovane welter rotea la testa, si sgranchisce braccia e gambe. Il giovane welter distende i muscoli. Il giovane welter respira, riflette. Urla.
Solo lui; il vuoto; il buio – la puzza dello scantinato - il Codex acceso; l’ologramma di Marta.
Il giovane welter pensa a un calcio da dare a Marta. Calò diceva che puoi dare calci a uno stronzo in tanti modi diversi. Il giovane welter non vorrebbe picchiarla davvero, Marta; ma per finta sì. Ma Marta non è neanche troppo stronza.
Il giovane welter spegne il Codex, allora. Non è l’ologramma di Marta che vorrebbe picchiare, ma l’ologramma del mondo.
È ancora solo, lui; il vuoto; il buio (la puzza dello scantinato).
Gli occhi di Marta, in testa.
Una lacrima. Gli uomini non piangono.
Il giovane welter è un uomo.
Il giovane welter non può piangere.
Il giovane welter smette di piangere e pensa ai calci. (Ne tira uno).
Al mondo, s'intende, intero (è logico, tutto).
Il giovane welter ricorda che questo tipo di calcio che ha appena sferrato all’aria si chiama 'mae gheri', si legge maigheri, glielo ricorda la voce roca di Calogero in un cassetto della memoria mezzo sepolto (a un certo punto non ci pensi mica più alle cose che fai, le fai e basta).
Colpisce con la punta del piede flessa: colpisce l’addome dell’avversario: che è il mondo: assesta un calcio al mondo all’altezza dell’equatore: il giovane welter smonta in due l’Africa: la spezza: la frantuma, assestando un altro colpo (un altro maigheri).
Poi pensa a un calcio circolare per colpire il mondo che è tondo. Pensa a un 'mawashi gari', si legge mawashigheri.Pensa a un calcio a uncino, per bloccare l’istante in cui tutto era perfetto. Lo sferra. Si chiama 'ura mawashi', si legge uramauashi.
Pensa a un calcio ad ascia, per tagliare il tempo: dividere il passato dal presente. Il calcio ad ascia, gli ricorda la voce roca di Calò nel cassetto quasi chiuso, si chiama 'kakato gari', si legge kakatogheri. Il giovane welter è incazzato col mondo.
Il giovane welter diventa un altro calcio a uncino, si chiama 'ura mawashi', si legge uramauashi. È un calcio, è tutto in quel calcio. È forte. Poi piange. Di nuovo.
Il giovane welter sa di occupare lo spazio sbagliato assegnato alla sua pedina nel gioco del mondo. Il giovane welter è profondamente arrabbiato col gioco del mondo.
Tanto vale smetterla, basta giocare.
Il giovane welter va a farsi una doccia.
Accende il Codex, si incuffia una canzone. L'acqua della doccia è freddissima.
Chiude l’acqua. Resta ad asciugarsi seduto per terra. Il mattonato freddo sotto il culo. La schiena che traballa ai suoi singhiozzi. Gocce d’acqua sulla pelle ambrata, come cupolette di vetro. Lacrime tra le ciglia: pezzi d'acqua che vogliono dire che qualcosa non va. Lacrime che tagliano come vetro.
Il giovane welter ripensa a Marta.
Va tutto bene, Marta, tutto bene (aveva detto).
Va tutto bene, un corno (vorrebbe dirle ora).

Continua qui:

giovedì 9 febbraio 2012


Quando sei qui con me
questo soffitto viola
no non esiste più.
Io vedo il cielo sopra noi
che restiamo qui
[...]
Suona un'armonica
mi sembra un organo
che vibra per te e per me
su nell'immensità del cielo

Pensando allo lonza dantesca, Borges immagina di essersi trovato davanti a un leopardo in gabbia, e di avergli detto: «Vivi e morirai in questa prigione, affinché un uomo che so io ti guardi un certo numero di volte e non ti scordi e metta la tua immagine e il tuo simbolo in un poema che occupa un posto preciso nella trama dell'universo. Patisci prigionia ma avrai dato una parola al poema».
Così anche Aristide Rumenta, artigiano-imbianchino sedicente geometra che un giorno decise di dipingere di viola il soffitto di una stanza di una villetta ligure che sarebbe stata affittata poi da un cantautore, anche di lui possiamo dire che ha dato una parola alla canzone italiana.

Il padre celebra liricamente i fasti surreali della canzone italiana, quando si legavano ragazze a un granello di sabbia e i soffitti viola sparivano dalle stanze per fare posto al cielo, le zebre erano a pois ed esisteva la tintarella di luna.
Il figlio, che indossa strani bragoni dal cavallo bassissimo e muove le mani in modo ancora più strano, replica aggressivamente con le monosillabiche insegne del rap: fuck, suck, dick, ass, shit.
Secondo Porfirione la mente dell'uomo non può immaginare, nemmeno nelle sue fantasie più libere, nulla che non esista realmente. La conversazione fra questo padre e questo figlio, dunque, ci autorizza a immaginare che in qualche punto dell'universo ci sia una stanz con un soffitto viola, che dentro questa stanza, illuminate da un raggio lunare, stiano una ragazza legata a un granello di sabbia e una zebra a pallini; poi che il soffitto si dissolva e dall'alto piovano nella stanza un fallo, uno sfintere e una certa quantità di materia fecale; infine, che questi nuovi elementi entrino in ogni possibile combinazione con gli organi genitali e con le bocche della ragazza e della zebra.

«Mi sembra un organo», dice il padre mentre si avvicina commosso alla Thomaskirche di Lipsia.
«No, è solo un'armonica», lo disillude spietatamente il figlio guardando un mendicante.

Tre postille ad un soffitto viola, da Fantasmagonia, Michele Mari


giovedì 2 febbraio 2012

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.


Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.

Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.

Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.

Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.

Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.

Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.

Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.

Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.

Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.

Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino.

Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.

Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d’acqua.

E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,

immobile, con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,

assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.

Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.

Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.

Verità, non prestarmi troppa attenzione.

Serietà, sii magnanima con me.

Sopporta, mistero dell’esistenza, se tiro via fili dal tuo strascico.

Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.

Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.

Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.

So che finchè vivo niente mi giustifica,

perché io stessa mi sono d’ostacolo.

Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,

E poi fatico per farle sembrare leggere.

(Wisława Szymborska, 1923 - 2012)

sabato 28 gennaio 2012

Storie di cronopios e di famas, Einaudi, 1971

Piccola storia tendente a illustrare quanto precaria sia la stabilità all'interno della quale crediamo di vivere, ovvero che le leggi potrebbero cedere terreno alle eccezioni, al caso, o alle improbabilità, e qui ti voglio.
J. Cortàzar, Storie di cronopios e di famas, Einaudi, 1971

http://www.youtube.com/watch?v=PTz20ewydlw

mercoledì 25 gennaio 2012

I
Solo l’amare, solo il conoscere 
conta, non l’aver amato, 
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato 
amore. L’anima non cresce più. 
Ecco nel calore incantato
della notte che piena quaggiù 
tra le curve del fiume e le sopite 
visioni della città sparsa di luci,
echeggia ancora di mille vite, 
disamore, mistero, e miseria 
dei sensi, mi rendono nemiche
le forme del mondo, che fino a ieri 
erano la mia ragione d’esistere. 
Annoiato, stanco, rincaso, per neri
piazzali di mercati, tristi 
strade intorno al porto fluviale, 
tra le baracche e i magazzini misti
agli ultimi prati. Lì mortale 
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi, 
alla stazione di Trastevere, appare
ancora dolce la sera. Ai loro rioni, 
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri - in tuta o coi calzoni
di lavoro, ma spinti da un festivo ardore -
i giovani, coi compagni sui sellini, 
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori
chiacchierano in piedi con voci 
alte nella notte, qua e là, ai tavolini 
dei locali ancora lucenti e semivuoti.
Stupenda e misera città, 
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci 
gli uomini imparano bambini,
le piccole cose in cui la grandezza 
della vita in pace si scopre, come 
andare duri e pronti nella ressa
delle strade, rivolgersi a un altro uomo 
senza tremare, non vergognarsi 
di guardare il denaro contato
con pigre dita dal fattorino 
che suda contro le facciate in corsa 
in un colore eterno d’estate;
a difendermi, a offendere, ad avere 
il mondo davanti agli occhi e non 
soltanto in cuore, a capire
che pochi conoscono le passioni 
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono
fratelli proprio nell’avere 
passioni di uomini 
che allegri, inconsci, interi
vivono di esperienze 
ignote a me. Stupenda e misera 
città che mi hai fatto fare
esperienza di quella vita 
ignota: fino a farmi scoprire 
ciò che, in ognuno, era il mondo.
Una luna morente nel silenzio, 
che di lei vive, sbianca tra violenti 
ardori, che miseramente sulla terra
muta di vita, coi bei viali, le vecchie 
viuzze, senza dar luce abbagliano 
e, in tutto il mondo, le riflette
lassù, un po’ di calda nuvolaglia. 
È la notte più bella dell’estate.
Trastevere, in un odore di paglia
di vecchie stalle, di svuotate 
osterie, non dorme ancora. 
Gli angoli bui, le pareti placide
risuonano d’incantati rumori. 
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
- sotto festoni di luci ormai sole -
verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando 
da cui più l’anima era invasa
quando veramente amavo, quando 
veramente volevo capire. 
E, come allora, scompaiono cantando.
 
Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci (Poemetti, 1957) 
In Tutte le poesie, Volume I, Meridiani Mondadori, Milano 2003