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sabato 9 novembre 2013

La situazione è grammatica.

Giuseppe Patota, Prontuario di grammatica. L’italiano dalla A alla Z.




Francesco Torraca, nel 1883, scriveva che se è vero «che un buon maestro fa la scuola buona, non è men vero che l’opera del maestro (…) è spesso inceppata, non di rado sprecata, quando mancano i buoni libri».
I buoni libri, appunto, sono fondamentali, ma spesso mancano. Uno dei problemi su cui da sempre si sofferma l’attenzione dei linguisti quando si indaga su italiano e scuola è proprio quello della manualistica scolastica.
Negli anni, infatti, definizioni discutibili, esemplificazione fuorviante, scarsa funzionalità, vecchie regole, distinzioni tradizionali fornite per inerzia, mancanza di sensibilità sociolinguistica non hanno, spesso, fornito agli studenti gli strumenti necessari, vòlti a rafforzare determinate competenze.
E i risultati li vediamo ogni giorno. Senza farne drammi, ma la situazione è grammatica.
Gli ultimi dati OCSE non dicono nulla di buono: la maggior parte dei nostri connazionali non è in grado, di fronte a un testo scritto, di comprenderlo, trarne informazioni e utilizzarle poi per i propri obiettivi (solamente per restare sul problema lingua, ma non è – purtroppo – l’unico): abbastanza deprimente, ma torniamo a noi.

Restando sostanzialmente d’accordo con Graziadio Isaia Ascoli, «scrivere correttamente» rimane «una cosa che sa di miracolo, da perigliarvi la vita», dobbiamo però ammettere che in fondo basta poco. Basterebbe poco per parlare, scrivere bene, togliersi dalla testa – e dalla lingua – quei dubbi che ci si porta dietro dai tempi della scuola (o che si hanno, a scuola).
Sicuramente un po’ di buona volontà e qualche buon libro, appunto, potrebbero aiutare o a studiare, o a rinfrescare la memoria. Magari «una app grammaticale su carta che, nel tempo di un clic, informa sull’italiano in modo rapido, completo e scientificamente fondato» (così recita la quarta di copertina), o meglio, un prontuario di grammatica, come quello di Giuseppe Patota: Prontuario di grammatica. L’italiano dalla A alla Z, Laterza, 2013.



Come funziona e com’è fatta questa app grammaticale su carta?
Il prontuario di Giuseppe Patota, organizzato in ordine alfabetico, presenta circa mille argomenti relativi a tutti gli aspetti e i livelli della lingua italiana.
Le singole voci (in MAIUSCOLO o in corsivo) sono autonome. Una freccia verso destra → indica il rinvio a un’altra voce utile per completare la conoscenza dell’argomento, capire qualcosa in più, magari inquadrare il singolo dubbio in un contesto più ampio. Nei casi più incerti (le forme alternative sono indicate in corsivo e separate da una barretta), dopo i due punti è indicata la forma corretta o più usata (in grassetto) e sono evidenziate eventuali differenze tra uso scritto e parlato.  Un linguista, in fondo, sa sempre che c’è un abito adatto per ogni occasione; non dimentica mai, infatti, di dislocare opportunamente le molte alternative linguistiche sull’asse della variabile diafasica, riconoscendo la piena funzionalità di determinate espressioni a seconda delle varie situazioni. Il giudizio di accettabilità dipende fortemente dal canale orale o scritto, ad esempio (un caso classico? l’a me mi).






Così, tra i vari argomenti e i dubbi che Patota chiarisce, con rigore descrittivo e indicazioni pertinenti, c’è un elenco di parole che suscitano, spesso, perplessità riguardo alla posizione dell’accento (pp. 4-5): ma si dice persuàdere o persuadére? zàffiro o zaffìro?
E ancora, un utile schema sulle congiunzioni: coordinanti e subordinanti (pp. 41-43).

Poi la punteggiatura: il punto e virgola, quando si usa? (pp. 139-140). Stiamo parlando del segno interpuntivo che sembra destare più preoccupazioni (ah, signora mia!) e pare aver nemici da molti anni.
«Siamo costretti a rivelare che il punto e virgola ha dei nemici. In questo mondo non c'è pace per nessuno. E quei nemici sono feroci a tal segno che vorrebbero morto e sepolto il povero punto e virgola. Quindi, se ciò accadesse, rimarrebbero nell'esercizio delle loro funzioni solo il punto, i due punti e la virgola», scriveva Zama negli anni Trenta del Novecento.
Ma noi non vogliamo vedere morto e sepolto nessuno, per carità. E neanche farci dei nemici. Allora, continuando a sfogliare potremmo cercare di risolvere la questione del femminile dei nomi di professione (p. 66): è giusto dire assessora? il presidente o la presidente? il vigile, la vigile, o la vigilessa? e la ministra?
Il problema, invece, è la frase (pp. 69-70)? Troverete una risposta, magari passando per il predicato (pp. 131-132). Per la Protasi (p. 138), invece, vedi Ipotetiche, proposizioni.

Sfogliando il prontuario, sarà possibile, insomma, togliersi parecchi dubbi, come accade, sempre, con libri come quelli di Giuseppe Patota che è autore noto non solo agli accademici, a studiosi e studenti, ma anche a fasce ben più ampie, perché studioso, ma soprattutto divulgatore: insieme a Valeria Della Valle, negli anni, ha dato vita a un periodo roseo  nella divulgazione linguistica, rivolgendosi non solo al pubblico degli addetti al settore ma, veramente, a tutti.
Un periodo roseo che è andato a rischiarare, spesso, quella che Luca Serianni ha chiamato “zona grigia”: la zona della norma linguistica in cui possono sorgere dubbi per alternative ugualmente ammissibili, e in molti casi addirittura intercambiabili.

La forma non è tutto, ma il 95%, mi hanno insegnato, e una forma corretta sicuramente aiuta e facilita, veicola, nel modo migliore, l’informazione: questa è una grammatica in forma, senza dubbio. E può aiutare ad alleggerirsi: un po’ di sano esercizio grammatico non ha mai fatto male a nessuno.
Grammatici, mai drammatici, almeno in fatto di lingua, visto che non serve a nulla lamentarsi troppo, ma è sempre bene ricordare che «non può mai darsi una regola tanto vergine che da qualche eccettione non sia deflorata», in un certo senso, come scriveva Loreto Mattei.


Tamara Baris

Questa recensione è uscita, il mese scorso, qui:  http://www.ornitorinconews.it/index.php/cultura/10-cultura/77-la-situazione-e-grammatica.html

martedì 24 settembre 2013

Ho visto un Re, anzi due.



Ho visto un Re.
Ho visto un Re, anzi due.

#fareordine; #fareordini
Riordino il cervello, o almeno ci provo, e penso: ma Ho visto un re, l’hanno più ripubblicato, poi? Me ne ero completamente dimenticata, non avevo più controllato e, invece, controllo e vedo che un anno fa, Lìmina l’ha ripubblicato, finalmente.
Lo ordino – dopo aver riordinato il cervello – sùbito; arriva dopo due giorni; dopo quattro giorni, posso finalmente dire di avere la mia copia e di averla letta tutta e senza la fretta di restituirla a nessuno (sono conquiste, per un lettore).

#gridodibattaglia
Qualche giorno fa è rientrato a Roma, a casa, anche Giorgio Chinaglia (grido di battaglia) e riposa, ora, insieme a Tommaso Maestrelli. Qualche giorno fa, per questo motivo, hanno trasmesso su Rai Tre la puntata di Sfide dedicata a Long John e ai ragazzidiMaestrelli, allaLaziodiMaestrelli (che è una cosa che si scrive e si dice così tuttattaccata, tuttadunfiato).

#Maestro
Questi giorni, sì, lo confesso, li ho passati rimpiangendo il Maestro. E quella Lazio. La nostalgia di chi non ha vissuto, ma sente la mancanza. In questi giorni, mentre pensavo al Maestro e alla sua squadra, ho vinto non so quante volte lo scudetto, almeno 5: tra la puntata di Sfide, il libro di Carlo D’Amicis, i video su YouTube. Credo di aver vinto 5 scudetti in una settimana, sì, lo so: più di quanti la Lazio non ne abbia vinti in 113 anni (risate malefiche di chi legge il pezzo: immagino tifosi della Juve, della Roma, del Milan, del Napoli … e qualche laziale che fa un respiro profondo, e si perde tra i ricordi).
Ok, va bene tutto, ma non lo so, forse è qualcosa che non puoi capire se non ci sei dentro, ha detto qualcuno (http://www.youtube.com/watch?v=5bJ2AeMRKxA), ed è esattamente così. In una settimana, io, ho avuto la testa lì dentro.
#calcioefemmine
Una volta mi è stato detto: mi piace molto il tuo modo di rapportarti al calcio, pure se sei femmina (sottolineo ‘femmina’). In questo pezzo, forse, si vede il mio modo di rapportarmi al calcio, a quella Lazio che non ho mai vissuto, e al bel libro di D’Amicis, che non è commovente solo perché parla della morte di Re Cecconi, è commovente tutto: il Re Cecconi del D’Amicis bambino è commovente («E mi domando se essere sé stessi, volerlo essere anche quando senti che non sei nessuno, sia davvero umiltà oppure presunzione, o magari soltanto il senso pratico di chi ha imparato che, se vuoi la bicicletta, tocca a te comprarla a forza di ventini, e che poi, quando l’hai avuta, toccherà anche a te pedalare»).
L’intenso Re Cecconi del bambino Carlo che si fa Re (Tu sanguinosa, Lazio) fino a quando non arriva il momento di essere grandi, fino a quando il suo campione muore e a Carlo non resta che essere Carlo («Quando non potevo essere più lui, ero già molto più io. E mica mi piaceva»). 



#hovistounre
È per questo che in questo libro ho visto un Re, anzi due. Luciano Re Cecconi e Carlo Re Cecconi.
Tutto inizia con la prima volta allo stadio («La prima volta che sono andato allo stadio con mio padre, la Lazio ha vinto lo scudetto, e io credevo che ne avremmo vinto uno tutte le volte che ci saremmo andati – o quasi»); tutto inizia e si dilata – come sempre nella scrittura di D’Amicis – nello spazio tondo e accogliente delle parentesi. Una volta, leggendo Carlo, ho pensato esattamente questo: che mondo sarebbe senza le parentesi di Carlo D’Amicis? (Perché, per me, veramente, sarebbe un mondo diverso).
Per esempio, proprio in riferimento alla prima volta, Carlo, tra parentesi, ti dice che: «(La prima volta che porti tuo figlio allo stadio, studi minuziosamente il calendario. Eviti il derby. La Juve. Le giornate di pioggia. La prima volta che lo porti allo stadio vuoi farlo vincere senza correre rischi. Senza bagnarti tutto)».
Tutto questo, te lo dice tra parentesi. E deve dirtelo, e deve farlo proprio così.
La vita tra parentesi non va mai sottovalutata, ne sono convinta.
La vita, le vite, di Carlo e di Luciano Re Cecconi, si alternano nel libro. La vita dell’eroe biondo che correva e correva, senza fermarsi mai, per migliorarsi sempre, instancabile e saggio («ma più di tutto mi piace quando si tratta di tornare al proprio posto – che è molto diverso dal restarci, al proprio posto! – e cogliere rientrando in diagonale lo sguardo di Maestrelli mentre, dall’apprensione per vedermi andare a spasso lungo il campo come un Re che insegue un suo capriccio, passa al sollievo di verificare la copertura puntuale e diligente di un Cecconi»).

Il montaggio parallelo tra la vita e il mito, intervallato dall’appendice di documenti, interviste, articoli di giornale: la cronaca di quello che succedeva realmente, mentre Carlo era Re Cecconi, e Cecconi era Re («Lei è Re Cecconi, vero?»; «Io sono un Re perché Cecconi l’ha servito»).
Tra le maglie biancoazzurre di Re Cecconi, la sua famiglia, i ricordi, e le partite giocate in casa del bambino Carlo, prima che quel bambino crescesse e iniziasse a pensare di voler «baciare le ragazze. Fare sega a scuola. Il motorino» … prima di tutte quelle cose, quando Carlo era bambino e Luciano Re Cecconi era famoso: «la cosa bella di quando sei famoso è che non ti perdi mai», e forse anche quando sei bambino, non ti perdi mai. Quando sei bambino e incontri il tuo angelo biondo all’hotel Americana, tra matematica e misteri, e lui ti dice attento! e tu non cadi più.
#volere
«Io ho bisogno di volere.
Parlami di una cosa e io la vorrò. Fammela vedere, e mi verrà la voglia».

Re Cecconi aveva bisogno di volere, abbiamo tutti bisogno di volere, o almeno dovremmo. Mentre leggo, mi svuoto totalmente (voglio svuotarmi) e ascolto, come una che vuole imparare, come se di Lazio non sapessi proprio niente, e come se di quella Lazio non avessi mai saputo nulla: tolgo il mito, tolgo l’aura, e riascolto tutto da capo (ascolto tutto il mito che Carlo racconta). Il racconto in prima persona di Re Cecconi; il racconto in prima persona del bambino Carlo, prima, del giovane Carlo, poi.
Mi godo gli aneddoti, le situazioni, i sorrisi e le lacrime. Come se fossero state mie, come se ci fossi stata. Ma non solo io: qualsiasi lettore farebbe così, qualsiasi lettore, leggendo questo libro, potrebbe voler diventare un tifoso di quella Lazio. Perché quella Lazio aveva qualcosa da raccontare, senz’altro, e l’ha raccontato. Perché sempre di questo si tratta: raccontare.
E Carlo racconta, come sa fare, come fa sempre. Bellissime sono le pagine della sua infanzia, passata nel salotto di casa («nel salotto di casa mia c’erano sei sedie, e ogni sedia era un calciatore»), e lui era tutti, la palla la teneva sempre lui, e alla fine faceva anche le pagelle. Prima tra le sedie e il divano, poi il periodo del Subbuteo e il suo giornale fatto in casa (Re-pubblica, ovviamente): la sua Lazio, mica tappi. E, poi, la solitudine di te bambino che un giorno ti trovi solo tra i tuoi coetanei e capisci che «è da scemi dipingere di biondo la testa di un pupazzetto»; che forse è tutto da scemi, ma tu – comunque – continui ad aver il tuo manuale di Subbuteo, la tua visione del gioco, e hai da difendere la tua Lazio.
Perché la tua Lazio, era laLaziodiMaestrelli, la Lazio del tuo Re Cecconi e tu di Re Cecconi sai tutto, capisci («io ti capisco») anche il suo profondo dramma umano, della giornata dello scudetto, nella tua prima volta allo stadio, quando sai che Re Cecconi non è pienamente felice (o almeno per te bambino, è così, ne sei convinto, perché i bambini sono convinti) perché sta mandando in serie B il Foggia, e allora non può essere felice: sta vincendo uno scudetto, ma non può essere felice se manda in serie B il Foggia, non può. Battere la propria squadra e mandarla B: dramma umano («io ti capisco, e un po’ guardavo con riprovazione il pubblico festante che invece non capiva il dramma umano»). Il giorno del dramma umano e dello scudetto; di Chinaglia che come sempre «Cecco, tu passami la palla, che se mi passi la palla io faccio gò!»; del chiedersi cosa ci sia di pericoloso nell’andare allo stadio («e quanto più mio padre mi diceva: quelli sono i tifosi più esagitati, tanto più io mi sforzavo di cogliere là in mezzo, tra mille bandiere, gli indizi di un pericolo che nello stesso tempo mi affascinava e mi atterriva»); degli anni Settanta; di una giornata in cui misuri, dentro te – bambino di dieci anni – il peso della gioia e quello del dolore.
[Lo scudetto: http://www.youtube.com/watch?v=-J0A7nQU5q4]

«Ormai siamo d’accordo.
In questa squadra siamo d’accordo che, quando non lo siamo, si comincia a litigare».

Era la Lazio di Maestrelli, un buon padre, il Maestro, che lascia liberi i suoi calciatori, liberi di sentirsi dei figli prediletti (come diceva padre Lisandrini) e, quindi, di litigare, sì, ma di sentirsi, alla fine, fratelli, e fare pace. Piena di fratelli rissosi, di carattere: il Maestro, che non era un mental coach (oggi pare che ne ci sia uno), ma un allenatore e faceva tutto solo, i suoi ragazzi li motivava così: «Chi si astiene dalla lotta… » (come nel film con Alberto Sordi, Il Presidente del Borgorosso Football Club), che non era un motto politicamente corretto, ma efficace, e loro erano veri, così come erano, con Chinaglia (grido di battaglia) che diceva di votare Almirante, ma divideva la sua stanza con Oddi, borgataro e comunista.
Era bella quella Lazio, c’è poco da dire, e chi non l’ha vissuta può solo, anzi deve, farsela raccontare.
Magari da Carlo che, quanto fosse bella quella Lazio, lo sa bene, ma che una mattina scopre, anche, che lui è diventando grande, che il mondo è malato – gli dice il padre –   e che Luciano Re Cecconi è morto, il 19 gennaio 1977: la fine della vita di un ragazzo diventato mito. Un mito di tanti bambini che hanno smesso di essere bambini dopo la morte di Maestrelli e quella assurda di Re Cecconi, l’eroe biancoazzurro che giocava alla morte ed è morto per gioco.
Un mito per quei bambini, ma non solo. Una favola bella e triste, che a un certo punto, nell’oreficeria di Tabocchini, dopo quel colpo di pistola, diventa solo silenzio.




Per uno stupido scherzo Re Cecconi, la famosa mezz’ala della Lazio, ha ieri sera perduto la vita con un proiettile nel petto. Insieme a un compagno di squadra era entrato in una gioielleria nella zona di Corso Francia e, tenendo le mani in tasca, aveva detto la fatidica frase: «Fermi tutti, questa è una rapina». Il proprietario del negozio, già vittima in precedenza di una rapina, ha tirato fuori una pistola e ha fatto fuoco con micidiale precisione, quasi senza guardare. Erano le 19:30: mezz’ora dopo Luciano Re Cecconi è spirato nella sala operatoria dell’Ospedale San Giacomo. Aveva ventinove anni. Due ore dopo, alle 22, lo sparatore è stato arrestato per eccesso di legittima difesa putativa (…).
È entrato scherzando: «Questa è una rapina» -
Il gioiellerie non lo conosceva e ha sparato, «Il messaggero», 19 gennaio 1977.


Questa recensione è uscita il 24/09/2013, qui: http://www.ornitorinconews.it/

sabato 14 settembre 2013

La parola a ... (a me, sul Notiziario informativo del CSB Umanistico UniCLam, 4/2013)



bibliotèca s. f. [dal lat. bibliotheca, gr. βιβλιο- ϑκη, comp. di βιβλον «libro» e ϑκη «deposito»].

«Tardegardo seguita a non alzarsi dal suo tavolo se non per il desinare, ed anche allor che n’è lungi si capisce che la sua mente rimase in biblioteca, e che tutto il suo spirto smania di ritornarvi. E’ studia con un tal trasporto, che quasi mi fa paura».

-         Oggi sono stato tutto il giorno in biblioteca …
-         Hai studiato tantissimo, allora?
-         No, non ho combinato niente: sono stato su Facebook.

«Un eterno vento verbale soffia invisibile ovunque; non ci sono autori, e dunque non età; come potrebbe lo ‘scrittore’ non essere ignaro di sé? Guardate: solo libri anonimi affollano le biblioteche del mondo».

-         Ma come funziona ‘sta biblioteca? Cioè, tutti questi libri: io, il mio, come lo trovo? 

«La lettura di un libro può avere a che fare con un destino, o non può avervi a che fare in alcun modo: queste sono le cose che né la scuola né il giornalista ‘colto’ possono sapere. Producete, producete cultura: è il vostro mestiere, e soprattutto è il contrario della letteratura».

-         Devo leggere ‘sto libro per l’esame, vedi?
-         Ah, bellissimo!
-         Ahé! Bellissimo?

«Una civiltà letteraria non è fatta di letture, è fatta di riletture; forse semplicemente una civiltà».

-         Sì, ma che lo rileggo a fare? Io l’ho letto alle medie, eh! Che poi: di chi è? Italo, chi?

«Chiunque legga si trova di fronte alla inesauribilità della parola; la parola gli viene incontro come suono, come significato immediato, come allusione, come parentela con altre parole; una parola è chiara e insieme criptica».

-         Ma quindi per l’esame io mi devo studiare tutti ‘sti numeri e lettere qua sotto? Ma poi me li chiede?
-         In che senso, scusa?
-         Questa roba, dico.

Perle sentite in biblioteca, mentre aspettavo volumi da prendere in prestito,  e citazioni da libri che non presterei mai a nessuno.
«La migliore definizione di patria è: biblioteca».
Elias Canetti, Auto da fé.

venerdì 13 settembre 2013

Di ritorno da Mantova ...

Qui, un po' del mio Festivaletteratura di quest'anno:

http://www.ornitorinconews.it/index.php/8-attualita/46-pillole-di-festivaletteratura

sabato 15 giugno 2013

la quarta di copertina di un libro di Nori mi guarda ...

Ma qual è il momento
che dalla pioggia,
si passa alla non pioggia?
Dove è il punto 
che un millimetro più in là
piove,
e un millimetro più in qua
non piove.
Esiste?

venerdì 29 marzo 2013

«Riguardando questi materiali vedo che quasi tutte le correzioni sono a togliere: questo vuol dire che l'attuale versione, in ogni suo tratto di lingua e stile, era già tutta nella primissima. Anche per questo Di bestia in bestia è il libro della mia vita». MM


giovedì 28 marzo 2013

L’ultima regola di Cascione è da tenere a mente



Ecco, io, mentre scrivo, vorrei dirvi per prima l'ultima regola di Cascione, perché uno dovrebbe tenersela a mente sempre, dovrebbe scriversela a penna o stamparsela: una cosa di quelle da non dimenticare mai.
Ma si sa: a parole e lezioni da non dimenticare mai ci si arriva dopo lunghe attese, dopo prove, anche dopo cadute rovinose, anzi, dopo atterraggi rovinosi: ci vogliono tempo e pazienza, determinatezza. La saggezza è una conquista …
A voi, però, per imparare, per conoscere questa perla di saggezza, basterebbe leggere il libro di Marco Marsullo, Atletico Minaccia Football Club, e questa piccola verità vi arriverebbe nel giro di duecento pagine (duecentouno, per essere esatti).

Visto che, appunto, la saggezza è una conquista graduale, e voi non siete dei lettori infami, leggerete tutto il libro: uno potrebbe anche sfogliarlo al volo in libreria, aprire a pagina duecentouno, aumentare la propria saggezza e tornarsene a casa: potrebbe, ma non mi sembra una cosa saggia da fare, appunto.
Una buona cosa, invece, sarebbe leggerlo tutto e sapere come Vanni Cascione sia arrivato a questa sua settima regola, e sapere – anche e soprattutto – chi è Vanni Cascione: un allenatore di provincia senza speranza che ha collezionato esoneri e sconfitte, che si trova tra le mani un'armata Brancaleone; un Mourinho dei poveri che si dà delle regole, un po'  a mo' di Fight Club.
Le regole servono, ovvio, anche quelle di Cascione, perché aiutano schierarsi con nettezza nei momenti d'incertezza; aiutano a prendere una posizione: mai sottovalutarle. Per esempio, quando stai perdendo una partita, ricordati che: «non importa quanti gol prendi in una giornata storta, ma quanti altri ne potevi prendere se la partita non fosse finita» (questa è la terza  regola di Cascione, ricordatevela).
Cascione dice pure che «non esistono partite amichevoli, esistono solo partite da vincere. Il fair play è un'invenzione dei Testimoni di Geova e dei preti d'oratorio». Proprio così. Del resto, nella vita non esiste il pareggio, si diceva in un film.
Cascione ha delle regole, sì, ma Cascione ha soprattutto un mito: Josè Mourinho. 

Josè Mourinho è il mito da non perdere (quasi) mai di vista: «cosa farebbe, al posto mio, Josè Mourinho?» si chiede in continuazione Vanni, trasformandosi nello Special One, compiendo miracoli, motivando la sua squadra con discorsi alla Ogni maledetta domenica, a volte  dopo il suo benedetto Domenico, Mimì, che con i suoi modi sa essere molto convincente e può dare una mano («Facite silenzioooo! Mannaccia allu demoniooo!»), per esempio per dividere i giocatori dopo una zuffa.
Del romanzo di Marsullo ti restano le similitudini d'effetto, divertenti («il vento caldo di Mondragone mi avvolse come cellofan»; «magro come un etto di bresaola»); ti restano i personaggi, caricature d'essere umani, come se ne trovano, però, tantissimi nella vita; ti restano gli oggetti, i vestiti, gli accessori («il sector pezzotto»; «la canottiera pezzotta»), ti resta una provincia campana esagerata eppure vera, coi suoi bagni, coi suoi bar, con i suoi campi di calcio.
Ma com'è questa squadra? In realtà, dovete proprio leggerlo, quindi continuo a dirvi nulla …
Però vi dico che l’Atletico Minaccia è la squadra di Nino che corre come una scheggia e ha una «carnagione olivastra che rivelava intere giornate passate a scagliare palloni contro la saracinesca di un box auto»; di Antonio Pisapia che ha un nome che ricorda L'uomo in più: quarantré anni (un po' vecchio per giocare a calcio); due stagioni da comprimario nel Torino di Mondonico; giocatore che nella sua carriera ha superato solo due volte la linea del centrocampo: non male; poi c'è Spugna che parla per citazioni e ha un passato da campione a Sarabanda («e prendere a pugni un uomo solo perché è stato un po’ scortese, - cantava dondolandosi, - sapendo che quel brucia non son le offese…»); poi c’è Papatoccia «nu’ pitbùll con i piedi di Zico»: una bella squadra, senz’altro.
È «la sregolatezza che non ha a che fare col genio» che Marsullo cita in esergo da Santa Maradona, è sregolatezza pura, epica per niente sublime o eroica, che racconta come Vanni Cascione non si faccia scappare l'unica, vera occasione della sua vita per essere ricordato come un allenatore vincente.
Certo all'Atletico Minaccia come dice Cascione  a Lucio Magia «serviva qualche caso umano in meno e qualche professionista in più», ma poco importa e poi «un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo, dalla fantasia» (cantava quello, come del resto ricorda Spugna), un allenatore anche, uno scrittore pure: «non si è scrittori perché si è scelto di dire certe cose, ma perché si è scelto di dirle in un certo modo» (questo è Sartre), Marsullo ha scelto un certo modo, «cento, cento» (direbbe Vanni) e a me è piaciuto (dico io), e questa non è una recensione, per carità, ma è solo un modo per dirvi da questo blog ripostiglio: leggetelo.
Tamara Baris

Marco Marsullo è nato a Napoli nel 1985. Atletico minaccia football club, Einaudi, 2013, è il suo primo romanzo, e magari la vostra prossima lettura.

Francesco De Gregori, Nino, comunque.