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giovedì 9 febbraio 2012


Quando sei qui con me
questo soffitto viola
no non esiste più.
Io vedo il cielo sopra noi
che restiamo qui
[...]
Suona un'armonica
mi sembra un organo
che vibra per te e per me
su nell'immensità del cielo

Pensando allo lonza dantesca, Borges immagina di essersi trovato davanti a un leopardo in gabbia, e di avergli detto: «Vivi e morirai in questa prigione, affinché un uomo che so io ti guardi un certo numero di volte e non ti scordi e metta la tua immagine e il tuo simbolo in un poema che occupa un posto preciso nella trama dell'universo. Patisci prigionia ma avrai dato una parola al poema».
Così anche Aristide Rumenta, artigiano-imbianchino sedicente geometra che un giorno decise di dipingere di viola il soffitto di una stanza di una villetta ligure che sarebbe stata affittata poi da un cantautore, anche di lui possiamo dire che ha dato una parola alla canzone italiana.

Il padre celebra liricamente i fasti surreali della canzone italiana, quando si legavano ragazze a un granello di sabbia e i soffitti viola sparivano dalle stanze per fare posto al cielo, le zebre erano a pois ed esisteva la tintarella di luna.
Il figlio, che indossa strani bragoni dal cavallo bassissimo e muove le mani in modo ancora più strano, replica aggressivamente con le monosillabiche insegne del rap: fuck, suck, dick, ass, shit.
Secondo Porfirione la mente dell'uomo non può immaginare, nemmeno nelle sue fantasie più libere, nulla che non esista realmente. La conversazione fra questo padre e questo figlio, dunque, ci autorizza a immaginare che in qualche punto dell'universo ci sia una stanz con un soffitto viola, che dentro questa stanza, illuminate da un raggio lunare, stiano una ragazza legata a un granello di sabbia e una zebra a pallini; poi che il soffitto si dissolva e dall'alto piovano nella stanza un fallo, uno sfintere e una certa quantità di materia fecale; infine, che questi nuovi elementi entrino in ogni possibile combinazione con gli organi genitali e con le bocche della ragazza e della zebra.

«Mi sembra un organo», dice il padre mentre si avvicina commosso alla Thomaskirche di Lipsia.
«No, è solo un'armonica», lo disillude spietatamente il figlio guardando un mendicante.

Tre postille ad un soffitto viola, da Fantasmagonia, Michele Mari


giovedì 2 febbraio 2012

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.


Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.

Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.

Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.

Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.

Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.

Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.

Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.

Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.

Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.

Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino.

Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.

Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d’acqua.

E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,

immobile, con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,

assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.

Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.

Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.

Verità, non prestarmi troppa attenzione.

Serietà, sii magnanima con me.

Sopporta, mistero dell’esistenza, se tiro via fili dal tuo strascico.

Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.

Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.

Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.

So che finchè vivo niente mi giustifica,

perché io stessa mi sono d’ostacolo.

Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,

E poi fatico per farle sembrare leggere.

(Wisława Szymborska, 1923 - 2012)