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sabato 31 dicembre 2011

2011, + o -


Non importa quanto ci si affanni a fare di noi stessi un monumento di parole, scrivendo diventiamo quel rumore muto, un'entità impalpabile ma presente che vaga di scatola cranica in scatola cranica, rimbombando nel cervello della gente. Tra il rumore muto impresso nei libri di Kafka e l'individuo in carne e ossa che Kafka era in vita ci corre un abisso che nessun nome potrà mai colmare. Non c'è scampo, scrivendo si diventa fantasmi.
Tommaso Pincio, Hotel a zero stelle, Contromano Laterza 2011. 



Chiusi il computer e spensi la luce. Mi strinsi ad Anna e neldormiveglia immaginai di trovare Simona, uscirci assieme a cena, spiegarle cosa provavo allora; e mi chiesi se la scrittura non nascesse da un vulnus, dalla mancata elaborazione di un lutto. A cosa allude se non a quella dolorosa assenza? A cosa cerca disperatamente di assegnare un nome, se non a ciò che non ha più cittadinanza nell'essere, o che non l'ha mai avuta?
Sergio Garufi, Il nome giusto, Ponte alle Grazie, 2011.








Non sarà facile ma si tratta proprio di questo, uomo, raccontare.
Alessandro Bertante, Nina dei lupi, Marsilio, 2011




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Forse mi inganno forse è vero che noi ci scriviamo proprio quando vorremmo tanto incontrarci, forse colpevoli siamo tutti e due. Ma talvolta mi dico che il mio silenzio è, in qualche modo, più comprensibile del tuo, perché il buio che mi impone è più antico.
Ingeborg Bachmann Paul Celan, Troviamo le parole, Lettere 1948-1973, Ritratti, Nottetempo, 2010.





- hai la mia parola. 
- le parole sono la merce più deperibile.  

La rispettabilità è tutto. E come tutto non è un granché, ma il resto non conta nulla.
Fabrizio Ottaviani, La gallina, Marsilio, 2011.




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Io non ho quasi mai bisogno di nessuno. Ma le volte che mi capita, ecco che c'è qualche intralcio.
Christian Frascella, La sfuriata di Bet, Einaudi, 2011.









- E i terroristi? in cosa si differenziano dai rivoluzionari clandestini?
- Chi lo sa. Potrebbe essere, anche in questo caso, la storia trita dei punti di vista. Rivoluzionari, terroristi. Parole, siamo intrappolati nelle parole. Da quelle non si esce. I fatti, nel frattempo, può succedere che sfuggano.
- Sarà. Ma devo chiederti un'altra cosa.
- Se so, Noè, ti rispondo.
- Come dire... la Tiziana. La Tiziana mi ha scritto tre messaggi.
- Messaggi?
- Sms.
- E che dice?
- Eh, che dice...
Matteo Melchiorre, La banda della superstrada Fenadora-Anzù (con vaneggiamenti sovversivi), Contromano Laterza, 2011.







Ho passato qualche ora anche con:
Ternitti, Mario Desiati, Mondadori, 2011; Perché scrivere, Zadie Smith, Minimum Fax, 2011; Tetano, Alessio Torino, Minimum Fax, 2011; Poeti degli Anni Zero, L’Illuminista, 2010; Fabio Guarnaccia, Più leggero dell’aria, Transeuropa, 2010; Arturo Robertazzi, Zagreb, Aìsara, 2011; Vincenzo Latronico, La cospirazione delle colombe, Bompiani; Franco Arminio, Terracarne, Mondadori, Strade Blu; Gianfranco Di Fiore, la notte dei petali bianchi, Laurana Editore, 2011

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... , ancora:











poi:
Tommaso Landolfi, Cancroregina.
Raymond Queneau, Hazard e Fissile.
Pier Paolo Pasolini, La divina mimesis, Transeuropa.

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poi:







Mi mancavano le parole per dire i pensieri. Forse mi mancavano anche i pensieri.
Mariapia Veladiano, La vita accanto, Einaudi Stile Libero Big, 2011




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Palahniuk x3:
Soffocare;
Invisible Monsters;
Dannazione.









Ultimo letto:
Giuseppe Munforte, Cantico della galera, Italic, 2011.
Ne parleremo, considera. Non dipenderà da noi, ma capiterà. Non è difficile per lui comprendere la strana predilezione della vita a incrociare ripetutamente i pochi oggetti del destino di ognuno. Questo bar. Quel giorno lontano. Il quadernetto. Quel golfino. L’anello. L’uomo astratto ne segue la tessitura, trova una misera rete di connessioni in qualunque disastro, consuma la sua emotività nella compassione solitaria del tempo degli altri.





Voglio dire che noi siamo una coppia? Non ci avevo pensato, ma non credo che sia il modo giusto di porre il problema. Certo, il nostro rapporto deve pur sempre fare i conti con i pronomi, che sono quello che sono, e dunque, dovrò dire "io", e dovrò dire "Lei". Ma non vede che già nell'uso strano, oserei dire stravagante, furbesco, di quel pronome "Lei", c'è un tentativo di eludere la cattura pronominale, e di attribuirLe un pronome ambiguo e dunque polivalente, un pronome da gioco, un gettone, una parola d'ordine, qualcosa che non ha sesso certo, e che può riferirsi a immagini incompatibili; anzi, che ripiegando su di una terza persona, per parlare ad una seconda, dà segnale evidente di voler guardare altrove, di evitare lo sguardo, giacché certamente Lei è una presenza anche terribile, sebbene sia anche una presenza estremamente cattivante, tanto cattivante che mi è impensabile un universo in cui io non abbia compiuto su di Lei questo gesto supremo e inesauribile, l'assassinio, e se esistesse codesto universo, io per verità non vorrei viverci.




giovedì 29 dicembre 2011

La Libellula n.3, recensione a Sergio Garufi, Il nome giusto

Recensione a Sergio Garufi, Il nome giusto su La Libellula




Narrativa/Poesia


Sergio GarufiIl nome giusto, Milano, Ponte Alle Grazie, 2011, pp. 235, € 16,00
A volte la vita è un lungo elenco di chiamate sbagliate: un elenco di nomi che spesso non sono quelli giusti. Può accadere che il nome giusto (che è proprio quello di cui avremmo bisogno) venga riconquistato solo nel momento del commiato (il nome giusto al momento sbagliato), quando le possibilità assegnateci da chissà cosa (Dio, vita, destino, caso) sono ormai esaurite. Come accade al protagonista del romanzo che si ritrova sbalzato sull’asfalto della circonvallazione, morto come dice il «referto autoptico di 73 parole e 567 battute. In stile neutro e gelido» (p. 11). Perché poco conta, alla fine, essere stato un «bracconiere di parole», un «rapsodo», un «cucitore».

La fine si sa è silenzio o al massimo è il rumore che gli altri fanno. La fine è così, è un taglio netto, che arriva come una scure e sancisce la cesura tra quello che eravamo e ciò che non saremo. Eppure il taglio toccato in sorte al protagonista del libro è piuttosto un ritaglio. Da questo ritaglio prende le mosse un romanzo di formazione, inventario delle cose notevoli, e annotate, di un uomo condannato in un limbo ben definito: continuare a bazzicare i luoghi che aveva frequentato da vivo, tenendo d’occhio i suoi amati libri. Si trova lì, ormai fantasma, nel rebelot del libraio Lino a cui erano stati venduti in blocco per una cifra irrisoria dopo la sua morte e li vede soggetti a diaspora, perdersi (come tanti pezzi di sé) nelle mani e nelle case di perfetti sconosciuti.
Seguendoli, il fantasma trae lo spunto per cercare di ricordare e capire, scotomizzando; ipotizza di trovarsi in quella condizione proprio perché «condannato da un demiurgo maligno a rimuginare sui suoi fallimenti» (p. 119), sulle assenze di quella vita che è stata anche mancanza di identità: essere nessuno e quindi essere tutti, vivere la vita effettiva e viverne un’altra totalmente immateriale e parallela, coltivata nell’immaginazione e nella letteratura. Essere anche le parole d’altri per la mancanza di una propria fantasia e perché «nel linguaggio non si accampano diritti di proprietà» (p. 86).

Ricordare, a partire dagli scrittori e dai romanzi d’elezione, come l’adorato Borges così «cortesemente evasivo» e ambiguo, «un homme de verre, qualcuno che a furia di rispecchiare il mondo aveva smarrito la propria identità invece di acquistarla» (p. 53). Ma, se nei grandi scrittori questa mancanza è ricchezza, negli scrittori mancati, come il nostro fantasma, è povertà. «I grandi scrittori mancano per definizione, perché in ogni epoca ci si è lamentati della loro assenza, salvo riconoscerne il genio da morti, quando appunto ci mancano e gli si dedicano commossi tributi» (p. 101), come nel caso della commemorazione mantovana, ricordata dal fantasma, dedicata a David F. Wallace.
Wallace, Salgari, la figura del padre. Anche nei confronti del genitore si tratta di mancanza, nel rapporto con quel padre-padreterno che lo condanna a un destino senza scampo, almeno nella sua idea, almeno inizialmente, se è vero che «i padreterni finiscono sempre per generare figli crocefissi» (p. 103). Ma forse scoprendosi figlio-nonfiglio si sottrarrà a quella tara, a quel destino che sembrava ineluttabile. O forse non ci si deve salvare proprio da niente, in realtà, se non da noi stessi, da tutti i noi stessi che siamo e non siamo («ma da sé stessi dalla propria coglionaggine come ci si difende?», p. 232). Così il fantasma continua a vagare perseguitato dal suo complesso della sedia mancante, tra attesa ed esclusione, legato ai suoi libri, croce e delizia in vita e post mortem: Leopardi, Lorenzo Lotto, Kafka che vanno via dal negozio e che legano i ricordi della sua vecchia vita alle vite dei nuovi lettori in un continuo alternarsi di analessi e prolessi.

Continuare a ossessionarsi per interrogarsi, oltre il senso della vita, nella morte, e chiedersi se tutto ciò servirà ancora, in linea con quell’idea maniacale che in vita l’aveva accompagnato, quel dover «censire tutto» (p. 135) e stare lì nella sua nuova veste per vedere ancora cosa manca. Raccontare questa mancanza, perché la scrittura in fondo nasce da questo, da una «ferita, un vulnus, dalla mancata elaborazione di un lutto», con la sua volontà di «assegnare un nome» a qualcosa «che non ha più cittadinanza nell’essere o che non l’ha mai avuta» (p. 106). Trovare il senso tra l’assoluto e l’insignificante. Guardando, ricordando tutto, raccontando. Raccontare, infatti, conta. Conta più che esistere talvolta. Perché esistere spesso è solo mancare, consacrandosi interamente alla carriera o dedicandosi ad amori “sbagliati”, continuando a cercare quello incondizionato.
Garufi racconta tutto questo con le parole giuste, con immagini che fanno presa nella mente del lettore: «il romanista con la testa prassiteliana e il corpaccione a pera» (p. 17); o ancora Cattafi nel suo mondo di media indifferenza, o la zia Salud, «una proletaria senza prole» (p. 65). Storia di nomi e personaggi mancati, in cui l’attenzione onomastica non può non comparire: con le riflessioni che riguardano personaggi marginali, come Serena, la fidanzata di Lino che compare in pochi attimi col suo nome “ossimorico” (come lo definisce il fantasma), sempre intenta a sbracciarsi, litigare, rinfacciare qualcosa; o il nome Anna, quello giusto, circolare.

L’autofinzione di Garufi è narrata sapientemente: asciutta, puntuale; con ricercatezza lessicale (anosmicosiliquastrocella ialinaflusso banausico); perché la parola è un vizio e un vezzo per chi, da vivo, scorreva con golosità il dizionario e provava piacere a usare parole che sì gli davano un tono, ma allo stesso tempo lo rendevano saccente, antipatico agli occhi dei compagni. Garufi a fine lettura però non risulta saccente, ma quell’abile cucitore che si era autoproclamato, con la capacità di usare registri diversi che consegnano al lettore un patchwork in cui ogni cosa sta al suo posto.
Essere fantasma distanzia l’io narrante di qualche passo dalla vicenda cronologicamente e anche emotivamente; dà la possibilità al lettore di seguire un racconto autobiografico quando la vita non c’è più e allora contano le immagini riflesse (che siano le ombre di ciò che eravamo o l’ombra che ora siamo diventati) e il modo di raccontarle: i nostri io e la scrittura, l’antidoto contro l’Inferno della memoria.

Tamara Baris

lunedì 5 dicembre 2011

Caos lento, in morte di Vox


Caos lento*.



Rileggo l’articolo di Tommaso dopo averlo inoltrato ad Alberto, come è prassi, ormai da un po’. Fuori fischia il vento, urla la bufera, pare la bora di Trieste: peccato che dalla finestra si veda solo il solito panorama, invece (che però non è per niente male, diciamolo). Lo scenario sembra quasi apocalittico: cielo grigio (senza sognare California), vento, pioggia: freddissima giornata uggiosa di Xmbre. È la giornata perfetta per l’addio a Vox (o per un film dell’orrore). Vox è morto, Vox ist tot (ma magari che ne sai, risorge).

Rileggo Tommaso e mi soffermo sulle ultime righe, soprattutto.

Ho visto
la gente della mia età andare via
lungo le strade che non portano mai a niente,
cercare il sogno che conduce alla pazzia
nella ricerca di qualcosa che non trovano



Sì, potrebbe starci: ‘la mia età’ anno più, anno meno; e tutto il resto: dai che è precariato; ricerca sottopagata; graduatorie infinite; ripetizioni il pomeriggio. Sì, siamo sono, siamo solo noi. (Scherzo ma non troppo).

Però conserviamo, o Tommaso, la speranza della resurrezione di Vox, o almeno proviamoci. O ancora: non vorrei che tutto questo finisse, non vorrei che l’uscita di scena di quella che Tommaso chiama ‘la nostra generazione’ significasse la fine di un’epoca, non lo vorrei, ma forse è così perché in fin dei conti: lo è.

Ma spero che possa esserci qualcun altro che abbia idee valide e magari migliori delle nostre, spero che qualcuno frugandosi nelle tasche possa riuscire a trovare una parola che si chiama impegno e possa usarla, in qualche modo. Perché mi rifiuto di pensare che se anche questo giornale dovesse morire a nessun altro possa venire qualche idea simile, migliore, valida.

E poi: suvvia Tommaso, vecchi? Col sorriso sulle labbra, pensando alla nostra presunta vecchiaia dopo aver letto il collega Di Brango, mi volto e trovo il Meridiano di Fitzgerald che mi fa compagnia sul mio scrittoio e penso a questo passo che, quando lessi Belli e dannati, mi colpì e che vista l’età anagrafica dei più tra noi voxisti, ci sta:



«Un altro inverno». La voce di Maury giunse dalla finestra in un sussurro.

«Diventiamo vecchi, Anthony. Ho ventisette anni, perdio! Mancano

 tre anni ai trenta, e poi sarò quello che gli studenti liceali chiamano

un uomo di mezza età».



Gli studenti liceali, già. O anche le matricole, per dire. Vox di certo è nato che eravamo più giovani e ne ha avuti di difetti, eccome. (Tra tre anni voialtri, sarete uomini di mezza età, almeno stando a Maury, fatevene una ragione).




Pur con tutti i difetti, le mancanze, gli errori, è stato impegno, è stato un impegno, è stato il nostro impegno di studenti. Forse quando abbiamo iniziato, non credevamo neanche che tutto questo potesse andare avanti e resistere per la bellezza di quattro anni, quattro anni in cui noi, studenti da strapazzo promotori di uno scrausissimo giornale universitario, siamo cresciuti, siamo diventati adulti (i vecchi di cui sopra).

Siamo cresciuti e forse strada facendo il giornale è cresciuto con noi (in linea di massima è migliorato negli anni, ora: no, vi prego, non cercate di ricordarvi quand’è che pubblicammo quella veste grafica orrida, color giallo Simpson, non siate pignoli, fidatevi di quello che dico: in linea di massima siamo cresciuti, rispetto ai primi esperimenti), migliorato grazie all’impegno di tutti noi, perché è così: perché questo giornale è sopravvissuto proprio grazie a tutti noi, ai nostri contributi, alle attività collaterali e al sostegno di tutti i lettori, studenti e docenti.






Viral #5
"Il tempo non manca, il tempo c'è sempre. Il tempo finisce una volta sola..."





Ecco io questa volta non ce l’ho fatta a sfornare una delle mie lunghissime recensioni (perché sì spesso sono state lunghissime: i temuti animali mitologici che arrivavano nella redazione di Vox spaventando i poveri Errico e Alberico che dovevano a tutti i costi farle entrare nello spazio stabilito, mea culpa), questa volta non ce l’ho fatta anche perché stavo per fare il colpo grosso, per chiudere in bellezza con un’intervista tutt’altro che scontata che però è sfumata. Pazienza: sono cose che capitano.






Una cosa che ho imparato in questi anni (e anche in questi anni di Vox) è che: sì, è possibile fare molto, e raggiungere più o meno tutte le persone che ci passano per la testa, che spesso sono solo a un colpo di telefono o distano da noi lo spazio del pulsante invio di un’e-mail ma siamo in un mondo che corre ed è il tempo il tiranno più grande da fronteggiare:  basta saperlo prendere, però.



Stavolta mi sono voltata sulla sinistra, sul mio scrittoio -  più che mai campo di battaglia - a ricordarmi che «il tempo c’è sempre» c’è la copertina bianca che il buon Federico Mauro (insieme al viral) ha confezionato per Fandango per l’ultimo di Sandro Veronesi, i racconti di Baci Scagliati Altrove.

Questione di tempo, e di tempi, la vita. Vero.  

Bisognerebbe ricordarselo. Accanto al libro della Fandango, il motto della Laterza ‘constanter et non trepide’ interviene come a sottolineare questo aspetto, del tempo. Il motto, in tutta la sua serietà, mi guarda come a dire «non te lo ricorderai mai»,  impeccabile sulla quarta di un altro libro impilato alla mia sinistra (sì, in effetti sono un po’ disordinata ma sono periodi, quelli in cui scrivi/studi/cerchi e hai un po’ tutto intorno, i periodi Vodafone dello pseudo-letterato, quelli, cioè: ‘tutto intorno a te’).

E penso pure di essere – sicuramente di essere stata – in aperto conflitto con questo motto della Laterza, sia io che noi di Vox ma, appunto, come dice Tommaso, noi ormai qua siamo i vecchi, e forse quell’irruenza della gioventù l’abbiam perduta. (Almeno un po’, ohibò!).






Alla fine è così che succede.



È successo quello che doveva succedere.
Ci siamo addormentati, perché è venuto il sonno

a fare il nostro periodico ritratto



Così, sonnacchiosa, chiudo Vox scrivendo nulla, scrivendo del nulla, scrivendo a malapena: infilo parole una dopo l’altra come in uno spiedino, uno spiedino di ricordi, uno spiedino di bilanci: perché l’ultimo numero è un po’ il numero delle commemorazioni, delle riflessioni, forse è così. E allora il mio bilancio qual è? Mio? No, il nostro. In questi anni, grazie alle pagine e ai caratteri di Vox Studenti alcuni di noi hanno capito cosa fare del proprio, di carattere, consegnandolo proprio ai font dei nostri, spesso acerbi, approcci con la scrittura. Anche i più timidi si sono fatti coraggio alla fine e ogni mese, o saltuariamente, hanno trovato il tempo e il modo di collaborare.



Vox è diventato davvero la nostra voce, la nostra possibilità e il nostro orecchio: dicendo la nostra opinione su un qualcosa (dal gruppo emergente, al film, al libro, alla politica nazionale) o ascoltando la parola di altri compagni di studi sulle vicende universitarie, spesso ignote ai più, spesso poco seguite. Tra chi ha capito cosa voler fare da grande e chi invece magari dopo quest’esperienza ne è uscito ancora più confuso, questo giornale è sopravvissuto ai nostri esami, alle nostre tesi triennali, alle nostre esperienze (anche se brevi, più o meno valide, più o meno precarie) lavorative, alle nostre passioni.

Vox è stato il nostro (piccolo) impegno sopravvissuto agli impegni, cercare di far sopravvivere l’impegno agli impegni: questa forse è stata la lezione di quest’esperienza del giornale universitario: questa è la parte positiva di questi anni di lavoro, ricchi di imprecisioni, inesperienze, a volte facilonerie, certo (ne siamo tutti consapevoli) ma l’impegno di questo gruppo lo terrò sempre a mente, come una delle cose più care successe in quel di via Zamosch. Poi, non per essere sempre la solita ma, essendo più giovine di alcuni degli altri miei colleghi, incluso il buon compagno aquinate Di Brango, ‘io sono ancora qua’, come dice Vasco Rossi (per la serie ‘chiudere in (non)bellezza’). Quindi, per favore, come direbbe Errico: «non abbandoniamoci a queste esternazioni da libro cuore». Torniamo invece, subito, a lavorare. Visto che, tra le altre cose, in questo minestrone di parole, questa volta, non m’è proprio riuscito di fare qualcosa che avesse un senso.

Tamara Baris



*Caos lento perché: 1. se non ricordo male la recensione a Caos calmo di Sandro Veronesi fu la prima cosa che scrissi per Vox, o comunque, sicuramente, la prima recensione; 2. perché è un pezzo caotico e lento, frammentario e un po’ perso: in morte del giornale studentesco, l’elaborazione particolare del ‘lutto’ di un gruppo di opinabili opiniosti/scriventi: magari di tanto in tanto ci vedrete su una delle panchine di via Zamosch.




Francis Scott Fitzgerald, Romanzi, a cura di Fernanda Pivano (1972)

Sandro Veronesi, Baci scagliati altrove, Fandango Libri, Novembre 2011.

giovedì 28 luglio 2011

TQ


Generazione TQ, quello che si dice/s'è detto. non Tutto/Qualcosa.




I membri di TQ:
I primi firmatari
Giuseppe Allegri
Andrea Bajani
Simone Barillari
Daniela Brogi
Cesare Buquicchio
Carlo Carabba
Andrea L. Carbone
Mattia Carratello
Marco Cassini
Stefano Chiodi
Roberto Ciccarelli
Gianluca Colloca
Andrea Cortellessa
Federica De Paolis
Matteo Di Gesù
Marco Di Marco
Peppe Fiore
Francesco Forlani
Stefano Gallerani
Tommaso Giartosio
Daniele Giglioli
Alessandro Grazioli
Andrea Inglese
Nicola Lagioia
Alessandro Leogrande
Giancarlo Liviano
Tiziana Lo Porto
Carlo Mazza Galanti
Federica Manzon
Giordano Meacci
Vincenzo Ostuni
Francesco Pacifico
Demetrio Paolin
Valentina Parlato
Gabriele Pedullà
Lorenza Pieri
Gilda Policastro
Alessia Polli
Laura Pugno
Costanza Quatriglio
Christian Raimo
Veronica Raimo
Alessandro Raveggi
Luca Ricci
Marco Rovelli
Vanni Santoni
Emiliano Sbaraglia
Francesca Serafini
Carola Susani
Giorgio Vasta
Sara Ventroni
Caterina Venturini
Paolo Zanotti
Emilia Zazza
Le nuove adesioni (in aggiornamento)
Rossano Astremo
Maria Grazia Calandrone
Mario Capello
Francesca Manzoni
Daniela Petracco
Valentina Pigmei
Andrea Pugliese
Italo Testa



TQ, Affari italiani


Giulio Mozzi:

Il Giornale:





«Guerriglia intellettuale». Il manifesto del gruppo TQ


Noi e Bennato per la resistenza del Teatro Valle

VALLE OCCUPATO - La generazione TQ si incontra: «Non siamo precari ...
Il Manifesto
Un'assemblea costituente rivolta ai lavoratori della conoscenza, cioè a coloro producono contenuti, storie e informazioni, praticano un'arte oppure erogano
 ...

Una sconfitta doppia per la generazione TQ

Rassegna Stampa Oblique:

TQ, fenomenologia di una generazione allo specchio : Andrea Inglese


La Generazione TQ e il verduraio di Havel
Costanza Quatriglio chiama a raccolta i cineasti

Generazione TQ
Avere 30-45 anni
Tante Questioni

Il ratto del Lingotto
Ruoli e generazioni
a parti invertite

Scrittori dello «sboom» unitevi. Se non ora quando

Generazione TQ opinioni a confronto...

Ancora su Generazione TQ

A proposito di TQ, Garufi

L’ennesima etichetta o la rinascita della classe intellettuale?

http://www.ilgiornale.it/cultura/metti_40_tq_stanza_e_vedrai_quanti_dubbi/26-07-2011/articolo-id=536874-page=0-comments=1

 

TQ: fenomenologia di una generazione letteraria allo specchio: Federica Sgaggio


la sfida della realtà degli intellettuali under50:


Sfida ai cattivi maestri:
Com’è lo scrittore TQ?
Mancassola, TQ:



martedì 26 luglio 2011

mentre leggo Belli e dannati

«Un altro inverno». La voce di Maury giunse dalla finestra in un sussurro. «Diventiamo vecchi, Anthony. Ho ventisette anni, perdio! Mancano tre anni ai trenta, e poi sarò quello che gli studenti liceali chiamano un uomo di mezza età».

a cosa stai pensando? a certi movimenti. a AW. a chiara, quando dice che siamo vecchie. più o meno.

martedì 12 luglio 2011


La prima regola del Live Kom è che non si parla del Live Kom.
Stadio Olimpico 1 luglio 2011, prima data romana del tour di Vasco Rossi.









Siamo qui, siamo vivi. Sembra nuvoloso, ma ogni tanto esce fuori il sole e allora noi là siamo lì a lessarci, la testa brucia, le spalle iniziano a diventare rosse, già mi prefiguro l’abbronzatura canotta.  In costume al concerto non ci starei, non sono il tipo. Però una delle più belle immagini di donna a un concerto è proprio la ragazza col bikini giallo al minuto “2.36” del video di Under Pressure, dei Queen. Cosa c’entrano i Queen? è il concerto di Vasco, Tama’ concentrati: non fa caldo, non è caldo, si respira a tratti, tutto sommato ce la puoi fare, questa fila prima o poi finirà, entrerai e sul prato del tuo Olimpico (oh, sul prato! Sul prato dell’Olimpico!) ascolterai le canzoni colonna sonora di una marea di momenti, intensi.

Non fa caldo. Io sono qui e vivo come mi pare a me, oh yeah-eh. Ok mi convinco, è passata mezz’ora: sull’Olimpico, sulle statue in marmo bianco volano gabbiani, penso che Lotito potrebbe quasi subire la tentazione di dipingerli, farli volare velocemente e sostituirli a Olimpia che magari gli costa di più, Lotito si sa c’ha il braccino corto e penso: chissà se sta qua, quella macchietta di Presidente. Però non ce lo vedo. Penso che sto pensando una marea di frescacce, che non mi verrebbe mezza freddura, che sarà colpa del caldo. Sicuro. Forse non sono lucidissima, il caldo si sa che non lo reggo, la mia amica a fianco mi fa: «tutto bene?» «Sì, sì come no!», le faccio.
«oh aprono», ogni tanto quell’esclamazione t’apre un mezzo spiraglio, ti mette una speranza. «andre’ me stai a frantuma’» fa una ragazzo al suo amico, non finisce di dirlo che da dietro scavalca la transenna un altro, sui trent’anni, accento napoletano, 1.80 m per 1.50 m: è bello pesante, e poi sulla pancia (c’ha la tartaruga pure lui, tipo quelli palestrati, solo che a lui è una di quelle giganti e al contrario) porta lo zaino, pieno di birre fredde, in tipica posizione da gita-attento-che-te-fregano-il-portafogli. Momento di panico, mentre scavalca, se ci cade addosso ci spiaccica: «Fate spazio a Yuriii!». Atterra. È atterrato. Lo spazio vitale di ognuno diminuisce ma senza danni. Anche se la ragazza e il ragazzo che avevo dietro mi si incollano tipo poster alla schiena. È tutto uno «scusa»/  «no, figurati»; «fatece entra’»/«ma perché non ce fanno entra’».
Alle 4 e mezza, camminando su un tappeto di monnezza fuori dall’Olimpico che manco a Napoli di questi tempacci, entriamo. Nascondiamo i tappi delle bottiglie nei fazzoletti Tempo (tempo di entrare dentro, passare i controlli, poi le riattappo). I tornelli, passo, la borsa (una cosa proprio minima, quando vado ai concerti sto in modalità basso consumo, quasi non esisto, voglio solo stare là) neanche me la guardano anche perché al tipo gli faccio, con due bottigliette piccole stappate in una mano e il biglietto nell’altra: «non ci riesco (ad aprirla)». Lui mi fa passare, entro. Attraverso la Nord e scendo giù verso il prato. La mia amica per guadagnare qualche metro fa: «oh tie’ riprenditi pure quest’altro tappo tuo». Me lo lancia; lo prendo; l’acqua magicamente neanche cade. Sarà la magia dell’Olimpico, sarà che è tutto perfetto così, perché sto per rendere onore a metà della mia anima blasqueena™: la parte blasca è lì perché deve esserci, perché dovevo farlo e poi, a casa mia, nel mio amato Olimpico: Olimpo d’un’infanzia tutta biliardino con gli amici, gavettoni e sfottò laziali-romanisti e italo-francesi (e d’inverno le Barbie, mica posso negarlo). Sarà che è la prima volta che calpesto proprio il prato dell’Olimpico, sarà che chiudo la bottiglia appena mi passa il tappo (‘na volpe, eh!) e il tipo arancione dello staff Vasco mi fa: «signorina, il tappo». Lo guardo con una faccia angelica ma tolgo il tappo sorridendo e me ne vado verso la mia postazione (tanto questa dura poco e l’altra caro mio il tappo ce l’ha: che poi tesoro mio della security con la maglia arancione che pare dell’Anas, ma tu: le hai viste le bottigliette che ‘sti poracci stanno vendendo a due euro, tra un po’ passando sopra il popolo di vasco sdraiato, appollaiato, confuso, sul prato coperto dell’Olimpico? Quelle non so’ bottiglie, eh? La Fanta, la Cerès, la Pepsi che questi vendono è magica? Le bottiglie si disintegrano volando se a qualcuno passa di lanciarle? Misteri, eh? Che poi dico, ma le Bollicine? Ma ce le siamo dimenticate? Ma la Pepsi? La Pepsi da Vasco? E dai, no: «io la Coca-Cola me la porto a scuola». Pensavo che te la portassi pure al concerto. Va beh).


Soddisfatti o rimborsati. Prendo al volo una copia di Satisfiction e appena mi siedo sbircio tra i nomi, vedo se è cambiato qualcuno in redazione, vedo chi ha scritto, chi ha recensito chi. Sono seduta. Sono arrivata. «Siamo da Vasco, finalmente raga’?» ci guardiamo soddisfatti io e i miei amici. E ci troviamo davanti due tipi che saranno sdraiati tutto il tempo (fino alle 20:40) mentre la gente gli passerà sul telo: ora, tu, uomo col maglione incorporato della tua peluria e la fidanzata tascabile, posso capire che ti lamenti quando siamo ancora pochi, posso capire che ti lamenti ancora alle 5, alle 6, alle 7, alle 7 e mezza, alle 8 però inizi a diventa’ pesante: ti alzi?!
No, non s’alzano, loro stanno al mare. Allora fai come vuoi, ma non lamentarti però: ah, Woodstock de noantri con la maglia di Che Guevara, ma l’hai capito che è un concerto di Vasco Rossi, siamo nella prima metà sotto la Sud e abbiamo una superficie 30X30 cm a testa? No, eh? Non l’hai capito. Tu te lamenti.


Pazienza: non l’hai mica capito.
Succede di tutto a un concerto di Vasco prima che inizi, mentre si svolge, a concerto finito. È un piccolo universo, un micromondo in cui il caos regna ovunque e forse per questo la situazione è eccellente. Ci vedi tutti i tipi di persona e le coppie in cui un singolo elemento lo ama, l’altro ama il consorte vaschiano e sta là solo per quello, si vede quando a un certo punto, specie magari dopo che quella dietro di te ha vomitato tutta la sangria che s’era bevuto, giustamente schifato, guarda la moglie come a dire: «ma do’ m’hai portato? E magari a casa mi sgridi se mangio con le mani». Carucci loro due, teneri. Strambi a dire il vero: vestiti uguale (così siamo una cosa sola) lei occhi marroni, una donna sui quaranta (forse di più), ama Vasco, lui no, lo capisci dalla faccia che c’ha. Altri due so’ quarantenni non integrati, di quelli rimasti agli anni novanta con la maglia nei jeans Levi’s: non si può guarda’. Mario s’intrattiene con un tipo bizzarro, la mia amica si guarda intorno, Claudio pensa a Cristina che è rimasta a casa stavolta perché è in arrivo Gabriele (che riceverà un bavaglino souvenir ma a lui di Vasco sicuramente poco gli importerà). Arriva un’altra coppia, lei una tipa molto easy, bella donna, un caratterino. Lui meno bello, ha una faccia che in onore di David Foster Wallace sembra dire: Una cosa divertente che non farò mai più. Mi dà una gomitata e mi fa: «Scusa». «No, figurati», faccio. E la moglie: «Amo’ e se cominci da mo’ a di’ scusa quann’è stasera te s’è seccata ‘a lingua».
Efficace, penso. Mi giro e vedo un tipo che mostra all’amico il libretto universitario, ‘na marea d’esami. L’altro guarda con la faccia di chi non ne fa molti, l’amico illustra, lui si sdraia e la pancia deborda fuori dalla maglia troppo corta e dai pantaloni bassi. Una duna. Poi pischelle, pischelli, ragazzi, ragazze, un uomo che cammina con le mani in tasca esibendo la sua figaggine e così facendo urta tutti, si ferma. Da qui vede bene. Dietro di lui, l’allegra famigliola coi frigoriferi, i piatti de carta, le posate, la pasta fredda: «oh vuoi vede’ che c’hanno pure il dolce?». E infatti ce l’avevano. Tutti li fotografano, so’ assurdi, ma so’ troppo belli. Un gruppo d’amici: hanno dai quaranta ai cinquant’anni e con loro c’è solo un figlio, forse il più piccolo tra tutta la prole del gruppo, forse l’unico, forse l’unico fan di Vasco, sui dodici anni, faccia da duro, biondo, abbronzato, bandana nera. Passa un tipo con accento romagnolo: «siete splendidi, vi posso fare una foto?». Si volta il capotribù: «basta che non me meni!».

La seconda regola del Live Kom è che non si parla del Live Kom: gli idioti. Si menano. No, non loro, non la tribù della pasta e il tipo dalla-romagna-con-furore (che tra l’altro m’ha maciullato un piede ripassando). Ma il tipo che si intratteneva con battute assurde col mio amico poco fa e un ragazzo con la maglia verde: «oh! Se menano!» Ma quelli della security stanno scattando foto e cantando: non l’hai mica capito. «oh l’hai capito che se menano?». Dopo un po’ si muovono. La Santalmassi del TG5 continua a riprendere con la videocamera e non s’accorge di niente, è lei, quella è Silvia Santalmassi che poco prima m’aveva fatto: «oh ma non ce crede nessuno che se ritira?».
Io che m’ero tirata indietro perché cantando avanzavo sempre più e avevo lasciato la borsa dalla mia amica, torno indietro a un certo punto, pensando alla borsa, e pensando che va beh: sto sola, do’ vado? Torno alla base, che credo più tranquilla, e trovo ‘sti tre che se menano. Li separano, si riattaccano. E penso: idioti. Mi scaricano. Ho un crollo. Forse non è tutto perfetto manco per niente. Mi sento improvvisamente stanca.
Polverone, tutto passa. Dura tutto poco. È un attimo. Per fortuna si sono calmati.
Ma io questo mi ricordo? No. È che un fiume di ricordi e ce li ho tutti anche perché ho bevuto solo acqua e non fumo, il cervello funzionava perfettamente ma forse, anche se non sembra, sono una bestia da concerto. Ci sto bene. Si vive. Un concerto rock, e un concerto di Vasco è un attimo zero: in cui tutto accade ma niente accade davvero (meno male, in alcuni casi). È una strana sensazione. E come descriverla? Tu torni a casa con una marea di fotogrammi e gli attimi più belli sono proprio quelli in cui hai spento il cervello (e quelli non li racconti ché sono solo tuoi), o hai smesso almeno di usare solo quello, sono quelli in cui eri là a saltare, cantare, piangere, sono quelli in cui hai ritrovato il senso che avevi perso per strada quando un Vasco, quello del primo maggio del 2009 sfumato all’ultimo minuto, ti era rimasto qui, sì: qui: ecco qui: a metà gola.

«Adesso un fuoriprogramma» dice Vasco dopo aver tirato fuori una scaletta come quella di San Siro: tra le nuove (fatte spesso a metà) e le vecchie, amate, cantate a squarciagola (e squarciacuore) da tutti, emozionandoci e ancora, chiedendoci scusa tra noi per qualche gomitata qua e là, in un momento in cui pensiamo, che sì: ci sono tre che si menano, o c’hanno provato (idioti), c’è quella che ha vomitato e poi ha coperto tutto con Satisfiction e leggo la firma di Scibona su quello schifo venuto da una che non s’è regolata, ma ci sono, ci siamo noi:  siamo solo noi: 65.000 persone che lo amano (in fondo pure i consorti un po’ ingessati si emozionano e cantano alla fine). Siamo qua e abbiamo questa diavolo di passione e penso che, mi regolo, mi freno, è l’unica passione delle mie che ho gestito bene (forse) quella per Vasco, non sono mai stata una fissata (pure se ce l’ho stampato nell’indirizzo e-mail che nessuno capisce), ma io stasera Vasco lo amo. E riguardo la Santalmassi che canta e vorrei dirle, mentre Vasco a volte mi pare stanco, pensieroso: «Silvia ma non è che si ritira davvero?». Insomma ogni tanto penso (pure al concerto di Vasco) e lui fa: adesso un fuoriprogramma e parte Un senso, parte e mi arriva dritto in faccia: qua piango, piango di brutto, sono due anni che la sento poco, perché vuoi per un motivo, vuoi per un altro, qualche ferita se la porta dietro e a volte fa male pure nello spazio privo di emozioni di un i-pod, o di un lettore cd a casa mentre spolveri. Pensa in mezzo a 65.000 come te, cantata da Vasco. Mi asciugo le lacrime, poi vedo che comunque escono ancora, me ne infischio, e canto più forte che posso, divento più alta di venti centimetri forse, urlo, sgomito, canto braccia al cielo ma le mani arrivano più su, le mani di tutti sono altissime e il cielo lo tocchiamo quasi davvero. Ripago un debito con me stessa e penso che tutto questo è perfetto. Che questa serata ha un senso, che questo concerto ha un senso. Che Vasco quando parla lo sento poco, ma quando canta di più, molto di più, e che quest’uomo m’è sempre piaciuto (oddio, alcuni degli ultimi album boh) perché non è snob, perché Vasco Rossi è quello che è, perché qua in mezzo io di snob non ne vedo, perché questa gente non snobba la vita (alcuni se la bruciano, vero). Che questa situazione (questo stare in piedi con quello dietro con la birra alzata mentre canta braccia al cielo: «non me fa le mèches, eh?»), che questa condizione (mascara sciolto, spalle cotte dal sole, lacrime che fanno capolino, corde vocali sofferenti), un senso ce l’ha. Eccome. Penso che oggi, 1 luglio 2011, mi sono ripresa un pezzo. E non voglio più lasciarlo. È la serata perfetta che chiude la settimana di lavoro per la presentazione di Carlo di martedì scorso de La battuta perfetta. E se proprio un senso dovesse mancare, domani o un altro giorno, arriverà.
 Ma… non so, e nella fretta dei tempi per Vox e con la stanchezza sulle spalle, tra sonno e mal di testa, mi chiedo se valga la pena raccontarlo. Se funzioni. Penso a chi leggerà: Tamara sta fuori.
Pazienza, sai quante volte capita, che te lo dicano. Stavolta lo racconto, perché no: non stavo fuori: stavo dentro. Che è quello che conta pure nella vita. Giocarsela. Esserci. Non mancare.  Raccontarlo…, boh: sicuramente meglio di così. Ma ho Fight Club vicino, sono un po’ di giorni che lo rileggo e penso, ora:

Non dici niente perché il Live Kom esiste soltanto nelle ore che vanno tra quando il Live Kom comincia e quando il Live Kom finisce.





Vivere o niente, Vasco Rossi, Capitol, 2011(CD).
Fight Club, Chuck Palahniuk, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2004, pp. 223.
Una cosa divertente che non farò mai più, David Foster Wallace, Minimum Fax, 2010, pp. 164.
La battuta perfetta, Carlo D’Amicis, Minimum Fax, 2010, pp. 362.


 







Tamara Baris

PS Sono stata un po’ ripetitiva in questi ultimi numeri ma è andata così stavolta; in un articolo comparso su Vox due numeri fa, riflettevo sulla guerra Vasco-Ligabue, dicendo che la loro rivalità era nata sul conflitto d’interessi generatosi sulla rivalità/contiguità/continuità insita nel binomio RoxyBar/Bar Mario. Eh, be’: Vasco più o meno a fine concerto ha detto: «Eh, ci vediamo al Roxy Bar, ma quale Roxy Bar? Il Roxy Bar ha chiuso, Red Ronnie è chiuso, ha chiuso… e va beh: ci vediamo da Mario, dai!».
Tutto torna.
E, nonostante le dimissioni annunciate, forse, pure Vasco torna. Forse. (Io però mi dimetto da [scrivente di] rockstar [questo era l’ultimo articolo su Rossi]).