La prima regola del Live Kom è che non si parla del Live Kom.
Stadio Olimpico 1 luglio 2011, prima data romana del tour di Vasco
Rossi.
Siamo
qui, siamo vivi. Sembra nuvoloso, ma ogni tanto esce
fuori il sole e allora noi là siamo lì a lessarci, la testa brucia, le spalle
iniziano a diventare rosse, già mi prefiguro l’abbronzatura canotta. In
costume al concerto non ci starei, non sono il tipo. Però una delle più belle
immagini di donna a un concerto è proprio la ragazza col bikini giallo al
minuto “2.36” del video di Under Pressure,
dei Queen. Cosa c’entrano i Queen? è il concerto di Vasco, Tama’ concentrati:
non fa caldo, non è caldo, si respira a tratti, tutto sommato ce la puoi fare,
questa fila prima o poi finirà, entrerai e sul prato del tuo Olimpico (oh, sul
prato! Sul prato dell’Olimpico!) ascolterai le canzoni colonna sonora di una
marea di momenti, intensi.
Non
fa caldo. Io sono qui e vivo come mi pare
a me, oh yeah-eh. Ok mi convinco, è passata mezz’ora:
sull’Olimpico, sulle statue in marmo bianco volano gabbiani, penso che Lotito
potrebbe quasi subire la tentazione di dipingerli, farli volare velocemente e
sostituirli a Olimpia che magari gli costa di più, Lotito si sa c’ha il
braccino corto e penso: chissà se sta qua, quella macchietta di Presidente.
Però non ce lo vedo. Penso che sto pensando una marea di frescacce, che non mi
verrebbe mezza freddura, che sarà colpa del caldo. Sicuro. Forse non sono
lucidissima, il caldo si sa che non lo reggo, la mia amica a fianco mi fa: «tutto
bene?» «Sì, sì come no!», le faccio.
«oh aprono», ogni tanto
quell’esclamazione t’apre un mezzo spiraglio, ti mette una speranza. «andre’ me
stai a frantuma’» fa una ragazzo al suo amico, non finisce di dirlo che da
dietro scavalca la transenna un altro, sui trent’anni, accento napoletano, 1.80
m per 1.50 m: è bello pesante, e poi sulla pancia (c’ha la tartaruga pure lui,
tipo quelli palestrati, solo che a lui è una di quelle giganti e al contrario)
porta lo zaino, pieno di birre fredde, in tipica posizione da gita-attento-che-te-fregano-il-portafogli.
Momento di panico, mentre scavalca, se ci cade addosso ci spiaccica: «Fate
spazio a Yuriii!». Atterra. È atterrato. Lo spazio vitale di ognuno diminuisce
ma senza danni. Anche se la ragazza e il ragazzo che avevo dietro mi si
incollano tipo poster alla schiena. È tutto uno «scusa»/ «no, figurati»; «fatece entra’»/«ma perché
non ce fanno entra’».
Alle 4 e mezza, camminando
su un tappeto di monnezza fuori dall’Olimpico che manco a Napoli di questi
tempacci, entriamo. Nascondiamo i tappi delle bottiglie nei fazzoletti Tempo (tempo di entrare dentro, passare
i controlli, poi le riattappo). I tornelli, passo, la borsa (una cosa proprio
minima, quando vado ai concerti sto in modalità basso consumo, quasi non
esisto, voglio solo stare là) neanche me la guardano anche perché al tipo gli
faccio, con due bottigliette piccole stappate in una mano e il biglietto
nell’altra: «non ci riesco (ad aprirla)». Lui mi fa passare, entro. Attraverso
la Nord e scendo giù verso il prato. La mia amica per guadagnare qualche metro
fa: «oh tie’ riprenditi pure quest’altro tappo tuo». Me lo lancia; lo prendo;
l’acqua magicamente neanche cade. Sarà la magia dell’Olimpico, sarà che è tutto
perfetto così, perché sto per rendere onore a metà della mia anima blasqueena™: la parte blasca è lì perché
deve esserci, perché dovevo farlo e poi, a casa mia, nel mio amato Olimpico:
Olimpo d’un’infanzia tutta biliardino con gli amici, gavettoni e sfottò
laziali-romanisti e italo-francesi (e d’inverno le Barbie, mica posso negarlo).
Sarà che è la prima volta che calpesto proprio il prato dell’Olimpico, sarà che
chiudo la bottiglia appena mi passa il tappo (‘na volpe, eh!) e il tipo
arancione dello staff Vasco mi fa: «signorina, il tappo». Lo guardo con una
faccia angelica ma tolgo il tappo sorridendo e me ne vado verso la mia
postazione (tanto questa dura poco e l’altra caro mio il tappo ce l’ha: che poi
tesoro mio della security con la maglia arancione che pare dell’Anas, ma tu: le
hai viste le bottigliette che ‘sti poracci stanno vendendo a due euro, tra un
po’ passando sopra il popolo di vasco sdraiato, appollaiato, confuso, sul prato
coperto dell’Olimpico? Quelle non so’ bottiglie, eh? La Fanta, la Cerès, la
Pepsi che questi vendono è magica? Le bottiglie si disintegrano volando se a
qualcuno passa di lanciarle? Misteri, eh? Che poi dico, ma le Bollicine? Ma ce le siamo dimenticate?
Ma la Pepsi? La Pepsi da Vasco? E dai, no: «io la Coca-Cola me la porto a
scuola». Pensavo che te la portassi pure al concerto. Va beh).
Soddisfatti
o rimborsati. Prendo al volo una copia di
Satisfiction e appena mi siedo sbircio tra i nomi, vedo se è cambiato qualcuno
in redazione, vedo chi ha scritto, chi ha recensito chi. Sono seduta. Sono
arrivata. «Siamo da Vasco, finalmente raga’?» ci guardiamo soddisfatti io e i
miei amici. E ci troviamo davanti due tipi che saranno sdraiati tutto il tempo
(fino alle 20:40) mentre la gente gli passerà sul telo: ora, tu, uomo col
maglione incorporato della tua peluria e la fidanzata tascabile, posso capire
che ti lamenti quando siamo ancora pochi, posso capire che ti lamenti ancora
alle 5, alle 6, alle 7, alle 7 e mezza, alle 8 però inizi a diventa’ pesante:
ti alzi?!
No, non s’alzano, loro
stanno al mare. Allora fai come vuoi, ma non lamentarti però: ah, Woodstock de
noantri con la maglia di Che Guevara, ma l’hai capito che è un concerto di
Vasco Rossi, siamo nella prima metà sotto la Sud e abbiamo una superficie 30X30
cm a testa? No, eh? Non l’hai capito. Tu te lamenti.
Pazienza:
non l’hai mica capito.
Succede di tutto a un
concerto di Vasco prima che inizi, mentre si svolge, a concerto finito. È un
piccolo universo, un micromondo in cui il caos regna ovunque e forse per questo
la situazione è eccellente. Ci vedi tutti i tipi di persona e le coppie in cui
un singolo elemento lo ama, l’altro ama il consorte vaschiano e sta là solo per
quello, si vede quando a un certo punto, specie magari dopo che quella dietro
di te ha vomitato tutta la sangria che s’era bevuto, giustamente schifato,
guarda la moglie come a dire: «ma do’ m’hai portato? E magari a casa mi sgridi
se mangio con le mani». Carucci loro due, teneri. Strambi a dire il vero:
vestiti uguale (così siamo una cosa sola) lei occhi marroni, una donna sui
quaranta (forse di più), ama Vasco, lui no, lo capisci dalla faccia che c’ha. Altri
due so’ quarantenni non integrati, di quelli rimasti agli anni novanta con la
maglia nei jeans Levi’s: non si può guarda’. Mario s’intrattiene con un tipo
bizzarro, la mia amica si guarda intorno, Claudio pensa a Cristina che è rimasta
a casa stavolta perché è in arrivo Gabriele (che riceverà un bavaglino souvenir
ma a lui di Vasco sicuramente poco gli importerà). Arriva un’altra coppia, lei
una tipa molto easy, bella donna, un caratterino. Lui meno bello, ha una faccia
che in onore di David Foster Wallace sembra dire: Una cosa divertente che non farò mai più. Mi dà una gomitata e mi
fa: «Scusa». «No, figurati», faccio. E la moglie: «Amo’ e se cominci da mo’ a
di’ scusa quann’è stasera te s’è seccata ‘a lingua».
Efficace, penso. Mi giro
e vedo un tipo che mostra all’amico il libretto universitario, ‘na marea
d’esami. L’altro guarda con la faccia di chi non ne fa molti, l’amico illustra,
lui si sdraia e la pancia deborda fuori dalla maglia troppo corta e dai
pantaloni bassi. Una duna. Poi pischelle, pischelli, ragazzi, ragazze, un uomo
che cammina con le mani in tasca esibendo la sua figaggine e così facendo urta
tutti, si ferma. Da qui vede bene. Dietro di lui, l’allegra famigliola coi
frigoriferi, i piatti de carta, le posate, la pasta fredda: «oh vuoi vede’ che
c’hanno pure il dolce?». E infatti ce l’avevano. Tutti li fotografano, so’
assurdi, ma so’ troppo belli. Un gruppo d’amici: hanno dai quaranta ai
cinquant’anni e con loro c’è solo un figlio, forse il più piccolo tra tutta la
prole del gruppo, forse l’unico, forse l’unico fan di Vasco, sui dodici anni,
faccia da duro, biondo, abbronzato, bandana nera. Passa un tipo con accento
romagnolo: «siete splendidi, vi posso fare una foto?». Si volta il capotribù: «basta
che non me meni!».
La
seconda regola del Live Kom è che non si parla del Live Kom: gli idioti.
Si menano. No, non loro, non la tribù della pasta e il tipo dalla-romagna-con-furore
(che tra l’altro m’ha maciullato un piede ripassando). Ma il tipo che si
intratteneva con battute assurde col mio amico poco fa e un ragazzo con la
maglia verde: «oh! Se menano!» Ma quelli della security stanno scattando foto e
cantando: non l’hai mica capito. «oh l’hai capito che se menano?». Dopo un po’
si muovono. La Santalmassi del TG5 continua a riprendere con la videocamera e
non s’accorge di niente, è lei, quella è Silvia Santalmassi che poco prima
m’aveva fatto: «oh ma non ce crede nessuno che se ritira?».
Io che m’ero tirata
indietro perché cantando avanzavo sempre più e avevo lasciato la borsa dalla
mia amica, torno indietro a un certo punto, pensando alla borsa, e pensando che
va beh: sto sola, do’ vado? Torno alla base, che credo più tranquilla, e trovo
‘sti tre che se menano. Li separano, si riattaccano. E penso: idioti. Mi
scaricano. Ho un crollo. Forse non è tutto perfetto manco per niente. Mi sento
improvvisamente stanca.
Polverone, tutto passa.
Dura tutto poco. È un attimo. Per fortuna si sono calmati.
Ma io questo mi
ricordo? No. È che un fiume di ricordi e ce li ho tutti anche perché ho bevuto
solo acqua e non fumo, il cervello funzionava perfettamente ma forse, anche se
non sembra, sono una bestia da concerto. Ci sto bene. Si vive. Un concerto
rock, e un concerto di Vasco è un attimo zero: in cui tutto accade ma niente
accade davvero (meno male, in alcuni casi). È una strana sensazione. E come
descriverla? Tu torni a casa con una marea di fotogrammi e gli attimi più belli
sono proprio quelli in cui hai spento il cervello (e quelli non li racconti ché
sono solo tuoi), o hai smesso almeno di usare solo quello, sono quelli in cui
eri là a saltare, cantare, piangere, sono quelli in cui hai ritrovato il senso
che avevi perso per strada quando un Vasco, quello del primo maggio del 2009
sfumato all’ultimo minuto, ti era rimasto qui, sì: qui: ecco qui: a metà gola.
«Adesso
un fuoriprogramma» dice Vasco dopo aver tirato fuori una
scaletta come quella di San Siro: tra le nuove (fatte spesso a metà) e le
vecchie, amate, cantate a squarciagola (e squarciacuore) da tutti,
emozionandoci e ancora, chiedendoci scusa tra noi per qualche gomitata qua e
là, in un momento in cui pensiamo, che sì: ci sono tre che si menano, o c’hanno
provato (idioti), c’è quella che ha vomitato e poi ha coperto tutto con Satisfiction e leggo la firma di Scibona
su quello schifo venuto da una che non s’è regolata, ma ci sono, ci siamo
noi: siamo solo noi: 65.000 persone che
lo amano (in fondo pure i consorti un po’ ingessati si emozionano e cantano
alla fine). Siamo qua e abbiamo questa diavolo di passione e penso che, mi regolo,
mi freno, è l’unica passione delle mie che ho gestito bene (forse) quella per Vasco,
non sono mai stata una fissata (pure se ce l’ho stampato nell’indirizzo e-mail
che nessuno capisce), ma io stasera Vasco lo amo. E riguardo la Santalmassi che
canta e vorrei dirle, mentre Vasco a volte mi pare stanco, pensieroso: «Silvia
ma non è che si ritira davvero?». Insomma ogni tanto penso (pure al concerto di
Vasco) e lui fa: adesso un fuoriprogramma e parte Un senso, parte e mi arriva dritto in faccia: qua piango, piango di
brutto, sono due anni che la sento poco, perché vuoi per un motivo, vuoi per un
altro, qualche ferita se la porta dietro e a volte fa male pure nello spazio
privo di emozioni di un i-pod, o di un lettore cd a casa mentre spolveri. Pensa
in mezzo a 65.000 come te, cantata da Vasco. Mi asciugo le lacrime, poi vedo
che comunque escono ancora, me ne infischio, e canto più forte che posso,
divento più alta di venti centimetri forse, urlo, sgomito, canto braccia al
cielo ma le mani arrivano più su, le mani di tutti sono altissime e il cielo lo
tocchiamo quasi davvero. Ripago un debito con me stessa e penso che tutto
questo è perfetto. Che questa serata ha un senso, che questo concerto ha un
senso. Che Vasco quando parla lo sento poco, ma quando canta di più, molto di
più, e che quest’uomo m’è sempre piaciuto (oddio, alcuni degli ultimi album
boh) perché non è snob, perché Vasco Rossi è quello che è, perché qua in mezzo
io di snob non ne vedo, perché questa gente non snobba la vita (alcuni se la
bruciano, vero). Che questa situazione (questo stare in piedi con quello dietro
con la birra alzata mentre canta braccia al cielo: «non me fa le mèches, eh?»), che questa condizione
(mascara sciolto, spalle cotte dal sole, lacrime che fanno capolino, corde vocali
sofferenti), un senso ce l’ha. Eccome. Penso che oggi, 1 luglio 2011, mi sono
ripresa un pezzo. E non voglio più lasciarlo. È la serata perfetta che chiude
la settimana di lavoro per la presentazione di Carlo di martedì scorso de La battuta perfetta. E se proprio un
senso dovesse mancare, domani o un altro giorno, arriverà.
Ma… non so, e nella fretta dei tempi per Vox e con la stanchezza sulle spalle,
tra sonno e mal di testa, mi chiedo se valga la pena raccontarlo. Se funzioni.
Penso a chi leggerà: Tamara sta fuori.
Pazienza, sai quante
volte capita, che te lo dicano. Stavolta lo racconto, perché no: non stavo
fuori: stavo dentro. Che è quello che conta pure nella vita. Giocarsela.
Esserci. Non mancare. Raccontarlo…, boh:
sicuramente meglio di così. Ma ho Fight
Club vicino, sono un po’ di giorni che lo rileggo e penso, ora:
Non
dici niente perché il Live Kom esiste
soltanto nelle ore che vanno tra quando il Live
Kom comincia e quando il Live Kom
finisce.
Vivere
o niente, Vasco Rossi, Capitol, 2011(CD).
Fight
Club,
Chuck Palahniuk, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2004, pp. 223.
Una
cosa divertente che non farò mai più, David Foster Wallace,
Minimum Fax, 2010, pp. 164.
La
battuta perfetta, Carlo D’Amicis, Minimum Fax, 2010, pp.
362.
Tamara Baris
PS Sono stata un po’
ripetitiva in questi ultimi numeri ma è andata così stavolta; in un articolo
comparso su Vox due numeri fa,
riflettevo sulla guerra Vasco-Ligabue, dicendo che la loro rivalità era nata
sul conflitto d’interessi generatosi sulla rivalità/contiguità/continuità
insita nel binomio RoxyBar/Bar Mario. Eh, be’: Vasco più o meno a fine concerto
ha detto: «Eh, ci vediamo al Roxy Bar, ma quale Roxy Bar? Il Roxy Bar ha
chiuso, Red Ronnie è chiuso, ha chiuso… e va beh: ci vediamo da Mario, dai!».
Tutto torna.
E, nonostante le
dimissioni annunciate, forse, pure Vasco torna. Forse. (Io però mi dimetto da
[scrivente di] rockstar [questo era l’ultimo articolo su Rossi]).