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giovedì 29 dicembre 2011

La Libellula n.3, recensione a Sergio Garufi, Il nome giusto

Recensione a Sergio Garufi, Il nome giusto su La Libellula




Narrativa/Poesia


Sergio GarufiIl nome giusto, Milano, Ponte Alle Grazie, 2011, pp. 235, € 16,00
A volte la vita è un lungo elenco di chiamate sbagliate: un elenco di nomi che spesso non sono quelli giusti. Può accadere che il nome giusto (che è proprio quello di cui avremmo bisogno) venga riconquistato solo nel momento del commiato (il nome giusto al momento sbagliato), quando le possibilità assegnateci da chissà cosa (Dio, vita, destino, caso) sono ormai esaurite. Come accade al protagonista del romanzo che si ritrova sbalzato sull’asfalto della circonvallazione, morto come dice il «referto autoptico di 73 parole e 567 battute. In stile neutro e gelido» (p. 11). Perché poco conta, alla fine, essere stato un «bracconiere di parole», un «rapsodo», un «cucitore».

La fine si sa è silenzio o al massimo è il rumore che gli altri fanno. La fine è così, è un taglio netto, che arriva come una scure e sancisce la cesura tra quello che eravamo e ciò che non saremo. Eppure il taglio toccato in sorte al protagonista del libro è piuttosto un ritaglio. Da questo ritaglio prende le mosse un romanzo di formazione, inventario delle cose notevoli, e annotate, di un uomo condannato in un limbo ben definito: continuare a bazzicare i luoghi che aveva frequentato da vivo, tenendo d’occhio i suoi amati libri. Si trova lì, ormai fantasma, nel rebelot del libraio Lino a cui erano stati venduti in blocco per una cifra irrisoria dopo la sua morte e li vede soggetti a diaspora, perdersi (come tanti pezzi di sé) nelle mani e nelle case di perfetti sconosciuti.
Seguendoli, il fantasma trae lo spunto per cercare di ricordare e capire, scotomizzando; ipotizza di trovarsi in quella condizione proprio perché «condannato da un demiurgo maligno a rimuginare sui suoi fallimenti» (p. 119), sulle assenze di quella vita che è stata anche mancanza di identità: essere nessuno e quindi essere tutti, vivere la vita effettiva e viverne un’altra totalmente immateriale e parallela, coltivata nell’immaginazione e nella letteratura. Essere anche le parole d’altri per la mancanza di una propria fantasia e perché «nel linguaggio non si accampano diritti di proprietà» (p. 86).

Ricordare, a partire dagli scrittori e dai romanzi d’elezione, come l’adorato Borges così «cortesemente evasivo» e ambiguo, «un homme de verre, qualcuno che a furia di rispecchiare il mondo aveva smarrito la propria identità invece di acquistarla» (p. 53). Ma, se nei grandi scrittori questa mancanza è ricchezza, negli scrittori mancati, come il nostro fantasma, è povertà. «I grandi scrittori mancano per definizione, perché in ogni epoca ci si è lamentati della loro assenza, salvo riconoscerne il genio da morti, quando appunto ci mancano e gli si dedicano commossi tributi» (p. 101), come nel caso della commemorazione mantovana, ricordata dal fantasma, dedicata a David F. Wallace.
Wallace, Salgari, la figura del padre. Anche nei confronti del genitore si tratta di mancanza, nel rapporto con quel padre-padreterno che lo condanna a un destino senza scampo, almeno nella sua idea, almeno inizialmente, se è vero che «i padreterni finiscono sempre per generare figli crocefissi» (p. 103). Ma forse scoprendosi figlio-nonfiglio si sottrarrà a quella tara, a quel destino che sembrava ineluttabile. O forse non ci si deve salvare proprio da niente, in realtà, se non da noi stessi, da tutti i noi stessi che siamo e non siamo («ma da sé stessi dalla propria coglionaggine come ci si difende?», p. 232). Così il fantasma continua a vagare perseguitato dal suo complesso della sedia mancante, tra attesa ed esclusione, legato ai suoi libri, croce e delizia in vita e post mortem: Leopardi, Lorenzo Lotto, Kafka che vanno via dal negozio e che legano i ricordi della sua vecchia vita alle vite dei nuovi lettori in un continuo alternarsi di analessi e prolessi.

Continuare a ossessionarsi per interrogarsi, oltre il senso della vita, nella morte, e chiedersi se tutto ciò servirà ancora, in linea con quell’idea maniacale che in vita l’aveva accompagnato, quel dover «censire tutto» (p. 135) e stare lì nella sua nuova veste per vedere ancora cosa manca. Raccontare questa mancanza, perché la scrittura in fondo nasce da questo, da una «ferita, un vulnus, dalla mancata elaborazione di un lutto», con la sua volontà di «assegnare un nome» a qualcosa «che non ha più cittadinanza nell’essere o che non l’ha mai avuta» (p. 106). Trovare il senso tra l’assoluto e l’insignificante. Guardando, ricordando tutto, raccontando. Raccontare, infatti, conta. Conta più che esistere talvolta. Perché esistere spesso è solo mancare, consacrandosi interamente alla carriera o dedicandosi ad amori “sbagliati”, continuando a cercare quello incondizionato.
Garufi racconta tutto questo con le parole giuste, con immagini che fanno presa nella mente del lettore: «il romanista con la testa prassiteliana e il corpaccione a pera» (p. 17); o ancora Cattafi nel suo mondo di media indifferenza, o la zia Salud, «una proletaria senza prole» (p. 65). Storia di nomi e personaggi mancati, in cui l’attenzione onomastica non può non comparire: con le riflessioni che riguardano personaggi marginali, come Serena, la fidanzata di Lino che compare in pochi attimi col suo nome “ossimorico” (come lo definisce il fantasma), sempre intenta a sbracciarsi, litigare, rinfacciare qualcosa; o il nome Anna, quello giusto, circolare.

L’autofinzione di Garufi è narrata sapientemente: asciutta, puntuale; con ricercatezza lessicale (anosmicosiliquastrocella ialinaflusso banausico); perché la parola è un vizio e un vezzo per chi, da vivo, scorreva con golosità il dizionario e provava piacere a usare parole che sì gli davano un tono, ma allo stesso tempo lo rendevano saccente, antipatico agli occhi dei compagni. Garufi a fine lettura però non risulta saccente, ma quell’abile cucitore che si era autoproclamato, con la capacità di usare registri diversi che consegnano al lettore un patchwork in cui ogni cosa sta al suo posto.
Essere fantasma distanzia l’io narrante di qualche passo dalla vicenda cronologicamente e anche emotivamente; dà la possibilità al lettore di seguire un racconto autobiografico quando la vita non c’è più e allora contano le immagini riflesse (che siano le ombre di ciò che eravamo o l’ombra che ora siamo diventati) e il modo di raccontarle: i nostri io e la scrittura, l’antidoto contro l’Inferno della memoria.

Tamara Baris

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