Ho visto un Re.
Ho visto un Re, anzi
due.
#fareordine; #fareordini
Riordino il cervello, o almeno ci
provo, e penso: ma Ho visto un re,
l’hanno più ripubblicato, poi? Me ne ero completamente dimenticata, non avevo
più controllato e, invece, controllo e vedo che un anno fa, Lìmina l’ha
ripubblicato, finalmente.
Lo ordino – dopo aver riordinato il
cervello – sùbito; arriva dopo due giorni; dopo quattro giorni, posso
finalmente dire di avere la mia copia
e di averla letta tutta e senza la fretta di restituirla a nessuno (sono
conquiste, per un lettore).
#gridodibattaglia
Qualche giorno fa è rientrato a Roma,
a casa, anche Giorgio Chinaglia (grido di battaglia) e riposa, ora, insieme a
Tommaso Maestrelli. Qualche giorno fa, per questo motivo, hanno trasmesso su
Rai Tre la puntata di Sfide dedicata
a Long John e ai ragazzidiMaestrelli, allaLaziodiMaestrelli (che è una cosa che
si scrive e si dice così tuttattaccata, tuttadunfiato).
[la puntata di Sfide: http://www.sfide.rai.it/dl/portali/site/puntata/ContentItem-b19241e6-ed72-447b-b550-689b06036233.html]
#Maestro
Questi
giorni, sì, lo confesso, li ho passati rimpiangendo il Maestro. E quella Lazio.
La nostalgia di chi non ha vissuto, ma sente la mancanza. In questi giorni,
mentre pensavo al Maestro e alla sua squadra, ho vinto non so quante volte lo
scudetto, almeno 5: tra la puntata di Sfide,
il libro di Carlo D’Amicis, i video su YouTube. Credo di aver vinto 5 scudetti
in una settimana, sì, lo so: più di quanti la Lazio non ne abbia vinti in 113
anni (risate malefiche di chi legge il pezzo: immagino tifosi della Juve, della
Roma, del Milan, del Napoli … e qualche laziale che fa un respiro profondo, e
si perde tra i ricordi).
Ok, va bene
tutto, ma non lo so, forse è qualcosa che non puoi capire se non ci sei dentro,
ha detto
qualcuno (http://www.youtube.com/watch?v=5bJ2AeMRKxA), ed è esattamente così. In una
settimana, io, ho avuto la testa lì dentro.
#calcioefemmine
Una volta mi è stato detto: mi piace
molto il tuo modo di rapportarti al calcio, pure se sei femmina (sottolineo ‘femmina’). In questo pezzo, forse, si vede il mio modo di rapportarmi al
calcio, a quella Lazio che non ho mai vissuto, e al bel libro di D’Amicis, che
non è commovente solo perché parla della morte di Re Cecconi, è commovente
tutto: il Re Cecconi del D’Amicis bambino è commovente («E mi domando se essere
sé stessi, volerlo essere anche quando senti che non sei nessuno, sia davvero
umiltà oppure presunzione, o magari soltanto il senso pratico di chi ha
imparato che, se vuoi la bicicletta, tocca a te comprarla a forza di ventini, e
che poi, quando l’hai avuta, toccherà anche a te pedalare»).
L’intenso Re
Cecconi del bambino Carlo che si fa Re (Tu
sanguinosa, Lazio) fino a quando non arriva il momento di essere grandi, fino
a quando il suo campione muore e a Carlo non resta che essere Carlo («Quando
non potevo essere più lui, ero già molto più io. E mica mi piaceva»).
#hovistounre
È per questo che in questo libro ho visto un
Re, anzi due. Luciano Re Cecconi e Carlo Re Cecconi.
Tutto inizia con la prima volta allo stadio
(«La prima volta che sono andato allo stadio con mio padre, la Lazio ha vinto
lo scudetto, e io credevo che ne avremmo vinto uno tutte le volte che ci
saremmo andati – o quasi»); tutto inizia e si dilata – come sempre nella
scrittura di D’Amicis – nello spazio tondo e accogliente delle parentesi. Una
volta, leggendo Carlo, ho pensato esattamente questo: che mondo sarebbe senza
le parentesi di Carlo D’Amicis? (Perché, per me, veramente, sarebbe un mondo
diverso).
Per esempio, proprio in riferimento alla
prima volta, Carlo, tra parentesi, ti dice che: «(La prima volta che porti tuo
figlio allo stadio, studi minuziosamente il calendario. Eviti il derby. La
Juve. Le giornate di pioggia. La prima volta che lo porti allo stadio vuoi
farlo vincere senza correre rischi. Senza bagnarti tutto)».
Tutto
questo, te lo dice tra parentesi. E deve dirtelo, e deve farlo proprio così.
La vita tra
parentesi non va mai sottovalutata, ne sono convinta.
La vita, le
vite, di Carlo e di Luciano Re Cecconi, si alternano nel libro. La vita
dell’eroe biondo che correva e correva, senza fermarsi mai, per migliorarsi
sempre, instancabile e saggio («ma più di tutto mi piace quando si tratta di
tornare al proprio posto – che è molto diverso dal restarci, al proprio posto!
– e cogliere rientrando in diagonale lo sguardo di Maestrelli mentre,
dall’apprensione per vedermi andare a spasso lungo il campo come un Re che
insegue un suo capriccio, passa al sollievo di verificare la copertura puntuale
e diligente di un Cecconi»).
Il montaggio
parallelo tra la vita e il mito, intervallato dall’appendice di documenti,
interviste, articoli di giornale: la cronaca di quello che succedeva realmente,
mentre Carlo era Re Cecconi, e Cecconi era Re («Lei è Re Cecconi, vero?»; «Io
sono un Re perché Cecconi l’ha servito»).
Tra le
maglie biancoazzurre di Re Cecconi, la sua famiglia, i ricordi, e le partite
giocate in casa del bambino Carlo, prima che quel bambino crescesse e iniziasse
a pensare di voler «baciare le ragazze. Fare sega a scuola. Il motorino» …
prima di tutte quelle cose, quando Carlo era bambino e Luciano Re Cecconi era
famoso: «la cosa bella di quando sei famoso è che non ti perdi mai», e forse
anche quando sei bambino, non ti perdi mai. Quando sei bambino e incontri il
tuo angelo biondo all’hotel Americana, tra matematica e misteri, e lui ti dice attento! e tu non cadi più.
#volere
«Io ho
bisogno di volere.
Parlami di
una cosa e io la vorrò. Fammela vedere, e mi verrà la voglia».
Re Cecconi
aveva bisogno di volere, abbiamo tutti bisogno di volere, o almeno dovremmo. Mentre
leggo, mi svuoto totalmente (voglio svuotarmi) e ascolto, come una che vuole
imparare, come se di Lazio non sapessi proprio niente, e come se di quella Lazio non avessi mai saputo
nulla: tolgo il mito, tolgo l’aura, e riascolto tutto da capo (ascolto tutto il
mito che Carlo racconta). Il racconto in prima persona di Re Cecconi; il
racconto in prima persona del bambino Carlo, prima, del giovane Carlo, poi.
Mi godo gli
aneddoti, le situazioni, i sorrisi e le lacrime. Come se fossero state mie,
come se ci fossi stata. Ma non solo io: qualsiasi lettore farebbe così,
qualsiasi lettore, leggendo questo libro, potrebbe voler diventare un tifoso di
quella Lazio. Perché quella Lazio aveva qualcosa da
raccontare, senz’altro, e l’ha raccontato. Perché sempre di questo si tratta:
raccontare.
E Carlo
racconta, come sa fare, come fa sempre. Bellissime sono le pagine della sua
infanzia, passata nel salotto di casa («nel salotto di casa mia c’erano sei
sedie, e ogni sedia era un calciatore»), e lui era tutti, la palla la teneva
sempre lui, e alla fine faceva anche le pagelle. Prima tra le sedie e il
divano, poi il periodo del Subbuteo e il suo giornale fatto in casa
(Re-pubblica, ovviamente): la sua Lazio,
mica tappi. E, poi, la solitudine di te bambino che un giorno ti trovi solo tra
i tuoi coetanei e capisci che «è da scemi dipingere di biondo la testa di un
pupazzetto»; che forse è tutto da scemi, ma tu – comunque – continui ad aver il
tuo manuale di Subbuteo, la tua visione del gioco, e hai da
difendere la tua Lazio.
Perché la
tua Lazio, era laLaziodiMaestrelli,
la Lazio del tuo Re Cecconi e tu di Re Cecconi sai tutto, capisci («io ti
capisco») anche il suo profondo dramma umano, della giornata dello scudetto, nella
tua prima volta allo stadio, quando sai che Re Cecconi non è pienamente felice
(o almeno per te bambino, è così, ne sei convinto, perché i bambini sono
convinti) perché sta mandando in serie B il Foggia, e allora non può essere
felice: sta vincendo uno scudetto, ma non può essere felice se manda in serie B
il Foggia, non può. Battere la propria squadra e mandarla B: dramma umano («io ti
capisco, e un po’ guardavo con riprovazione il pubblico festante che invece
non capiva il dramma umano»). Il giorno del dramma
umano e dello scudetto; di Chinaglia che come sempre «Cecco, tu passami la
palla, che se mi passi la palla io faccio gò!»; del chiedersi cosa ci sia di
pericoloso nell’andare allo stadio («e quanto più mio padre mi diceva: quelli sono i tifosi più esagitati,
tanto più io mi sforzavo di cogliere là in mezzo, tra mille bandiere, gli
indizi di un pericolo che nello stesso tempo mi affascinava e mi atterriva»);
degli anni Settanta; di una giornata in cui misuri, dentro te – bambino di
dieci anni – il peso della gioia e quello del dolore.
[Lo
scudetto: http://www.youtube.com/watch?v=-J0A7nQU5q4]
«Ormai siamo d’accordo.
In questa squadra siamo d’accordo
che, quando non lo siamo, si comincia a litigare».
Era la Lazio di Maestrelli, un buon padre, il
Maestro, che lascia liberi i suoi calciatori, liberi di sentirsi dei figli
prediletti (come diceva padre Lisandrini) e, quindi, di litigare, sì, ma di
sentirsi, alla fine, fratelli, e fare pace. Piena di fratelli rissosi, di
carattere: il Maestro, che non era un mental coach (oggi pare che ne ci sia
uno), ma un allenatore e faceva tutto solo, i suoi ragazzi li motivava così:
«Chi si astiene dalla lotta… » (come nel film con Alberto Sordi, Il
Presidente del Borgorosso Football Club), che non era un motto politicamente corretto, ma efficace, e loro erano
veri, così come erano, con Chinaglia (grido di battaglia) che diceva di votare
Almirante, ma divideva la sua stanza con Oddi, borgataro e comunista.
Era bella quella Lazio, c’è poco da dire, e chi non l’ha vissuta può
solo, anzi deve, farsela raccontare.
Magari da Carlo che, quanto fosse bella quella Lazio, lo sa bene, ma che
una mattina scopre, anche, che lui è diventando grande, che il mondo è malato –
gli dice il padre – e che Luciano Re Cecconi è morto, il 19
gennaio 1977: la fine della vita di un ragazzo diventato mito. Un mito di tanti
bambini che hanno smesso di essere bambini dopo la morte di Maestrelli e quella
assurda di Re Cecconi, l’eroe
biancoazzurro che giocava alla morte ed è morto per gioco.
Un mito per quei bambini, ma non solo. Una favola bella e triste, che a
un certo punto, nell’oreficeria di Tabocchini, dopo quel colpo di pistola,
diventa solo silenzio.
Per uno stupido scherzo Re Cecconi, la famosa mezz’ala della Lazio, ha
ieri sera perduto la vita con un proiettile nel petto. Insieme a un compagno di
squadra era entrato in una gioielleria nella zona di Corso Francia e, tenendo
le mani in tasca, aveva detto la fatidica frase: «Fermi tutti, questa è una
rapina». Il proprietario del negozio, già vittima in precedenza di una rapina,
ha tirato fuori una pistola e ha fatto fuoco con micidiale precisione, quasi
senza guardare. Erano le 19:30: mezz’ora dopo Luciano Re Cecconi è spirato
nella sala operatoria dell’Ospedale San Giacomo. Aveva ventinove anni. Due ore
dopo, alle 22, lo sparatore è stato arrestato per eccesso di legittima difesa
putativa (…).
È
entrato scherzando: «Questa è una rapina» -
Il
gioiellerie non lo conosceva e ha sparato, «Il messaggero»,
19 gennaio 1977.
Questa recensione è uscita il 24/09/2013, qui: http://www.ornitorinconews.it/