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martedì 24 settembre 2013

Ho visto un Re, anzi due.



Ho visto un Re.
Ho visto un Re, anzi due.

#fareordine; #fareordini
Riordino il cervello, o almeno ci provo, e penso: ma Ho visto un re, l’hanno più ripubblicato, poi? Me ne ero completamente dimenticata, non avevo più controllato e, invece, controllo e vedo che un anno fa, Lìmina l’ha ripubblicato, finalmente.
Lo ordino – dopo aver riordinato il cervello – sùbito; arriva dopo due giorni; dopo quattro giorni, posso finalmente dire di avere la mia copia e di averla letta tutta e senza la fretta di restituirla a nessuno (sono conquiste, per un lettore).

#gridodibattaglia
Qualche giorno fa è rientrato a Roma, a casa, anche Giorgio Chinaglia (grido di battaglia) e riposa, ora, insieme a Tommaso Maestrelli. Qualche giorno fa, per questo motivo, hanno trasmesso su Rai Tre la puntata di Sfide dedicata a Long John e ai ragazzidiMaestrelli, allaLaziodiMaestrelli (che è una cosa che si scrive e si dice così tuttattaccata, tuttadunfiato).

#Maestro
Questi giorni, sì, lo confesso, li ho passati rimpiangendo il Maestro. E quella Lazio. La nostalgia di chi non ha vissuto, ma sente la mancanza. In questi giorni, mentre pensavo al Maestro e alla sua squadra, ho vinto non so quante volte lo scudetto, almeno 5: tra la puntata di Sfide, il libro di Carlo D’Amicis, i video su YouTube. Credo di aver vinto 5 scudetti in una settimana, sì, lo so: più di quanti la Lazio non ne abbia vinti in 113 anni (risate malefiche di chi legge il pezzo: immagino tifosi della Juve, della Roma, del Milan, del Napoli … e qualche laziale che fa un respiro profondo, e si perde tra i ricordi).
Ok, va bene tutto, ma non lo so, forse è qualcosa che non puoi capire se non ci sei dentro, ha detto qualcuno (http://www.youtube.com/watch?v=5bJ2AeMRKxA), ed è esattamente così. In una settimana, io, ho avuto la testa lì dentro.
#calcioefemmine
Una volta mi è stato detto: mi piace molto il tuo modo di rapportarti al calcio, pure se sei femmina (sottolineo ‘femmina’). In questo pezzo, forse, si vede il mio modo di rapportarmi al calcio, a quella Lazio che non ho mai vissuto, e al bel libro di D’Amicis, che non è commovente solo perché parla della morte di Re Cecconi, è commovente tutto: il Re Cecconi del D’Amicis bambino è commovente («E mi domando se essere sé stessi, volerlo essere anche quando senti che non sei nessuno, sia davvero umiltà oppure presunzione, o magari soltanto il senso pratico di chi ha imparato che, se vuoi la bicicletta, tocca a te comprarla a forza di ventini, e che poi, quando l’hai avuta, toccherà anche a te pedalare»).
L’intenso Re Cecconi del bambino Carlo che si fa Re (Tu sanguinosa, Lazio) fino a quando non arriva il momento di essere grandi, fino a quando il suo campione muore e a Carlo non resta che essere Carlo («Quando non potevo essere più lui, ero già molto più io. E mica mi piaceva»). 



#hovistounre
È per questo che in questo libro ho visto un Re, anzi due. Luciano Re Cecconi e Carlo Re Cecconi.
Tutto inizia con la prima volta allo stadio («La prima volta che sono andato allo stadio con mio padre, la Lazio ha vinto lo scudetto, e io credevo che ne avremmo vinto uno tutte le volte che ci saremmo andati – o quasi»); tutto inizia e si dilata – come sempre nella scrittura di D’Amicis – nello spazio tondo e accogliente delle parentesi. Una volta, leggendo Carlo, ho pensato esattamente questo: che mondo sarebbe senza le parentesi di Carlo D’Amicis? (Perché, per me, veramente, sarebbe un mondo diverso).
Per esempio, proprio in riferimento alla prima volta, Carlo, tra parentesi, ti dice che: «(La prima volta che porti tuo figlio allo stadio, studi minuziosamente il calendario. Eviti il derby. La Juve. Le giornate di pioggia. La prima volta che lo porti allo stadio vuoi farlo vincere senza correre rischi. Senza bagnarti tutto)».
Tutto questo, te lo dice tra parentesi. E deve dirtelo, e deve farlo proprio così.
La vita tra parentesi non va mai sottovalutata, ne sono convinta.
La vita, le vite, di Carlo e di Luciano Re Cecconi, si alternano nel libro. La vita dell’eroe biondo che correva e correva, senza fermarsi mai, per migliorarsi sempre, instancabile e saggio («ma più di tutto mi piace quando si tratta di tornare al proprio posto – che è molto diverso dal restarci, al proprio posto! – e cogliere rientrando in diagonale lo sguardo di Maestrelli mentre, dall’apprensione per vedermi andare a spasso lungo il campo come un Re che insegue un suo capriccio, passa al sollievo di verificare la copertura puntuale e diligente di un Cecconi»).

Il montaggio parallelo tra la vita e il mito, intervallato dall’appendice di documenti, interviste, articoli di giornale: la cronaca di quello che succedeva realmente, mentre Carlo era Re Cecconi, e Cecconi era Re («Lei è Re Cecconi, vero?»; «Io sono un Re perché Cecconi l’ha servito»).
Tra le maglie biancoazzurre di Re Cecconi, la sua famiglia, i ricordi, e le partite giocate in casa del bambino Carlo, prima che quel bambino crescesse e iniziasse a pensare di voler «baciare le ragazze. Fare sega a scuola. Il motorino» … prima di tutte quelle cose, quando Carlo era bambino e Luciano Re Cecconi era famoso: «la cosa bella di quando sei famoso è che non ti perdi mai», e forse anche quando sei bambino, non ti perdi mai. Quando sei bambino e incontri il tuo angelo biondo all’hotel Americana, tra matematica e misteri, e lui ti dice attento! e tu non cadi più.
#volere
«Io ho bisogno di volere.
Parlami di una cosa e io la vorrò. Fammela vedere, e mi verrà la voglia».

Re Cecconi aveva bisogno di volere, abbiamo tutti bisogno di volere, o almeno dovremmo. Mentre leggo, mi svuoto totalmente (voglio svuotarmi) e ascolto, come una che vuole imparare, come se di Lazio non sapessi proprio niente, e come se di quella Lazio non avessi mai saputo nulla: tolgo il mito, tolgo l’aura, e riascolto tutto da capo (ascolto tutto il mito che Carlo racconta). Il racconto in prima persona di Re Cecconi; il racconto in prima persona del bambino Carlo, prima, del giovane Carlo, poi.
Mi godo gli aneddoti, le situazioni, i sorrisi e le lacrime. Come se fossero state mie, come se ci fossi stata. Ma non solo io: qualsiasi lettore farebbe così, qualsiasi lettore, leggendo questo libro, potrebbe voler diventare un tifoso di quella Lazio. Perché quella Lazio aveva qualcosa da raccontare, senz’altro, e l’ha raccontato. Perché sempre di questo si tratta: raccontare.
E Carlo racconta, come sa fare, come fa sempre. Bellissime sono le pagine della sua infanzia, passata nel salotto di casa («nel salotto di casa mia c’erano sei sedie, e ogni sedia era un calciatore»), e lui era tutti, la palla la teneva sempre lui, e alla fine faceva anche le pagelle. Prima tra le sedie e il divano, poi il periodo del Subbuteo e il suo giornale fatto in casa (Re-pubblica, ovviamente): la sua Lazio, mica tappi. E, poi, la solitudine di te bambino che un giorno ti trovi solo tra i tuoi coetanei e capisci che «è da scemi dipingere di biondo la testa di un pupazzetto»; che forse è tutto da scemi, ma tu – comunque – continui ad aver il tuo manuale di Subbuteo, la tua visione del gioco, e hai da difendere la tua Lazio.
Perché la tua Lazio, era laLaziodiMaestrelli, la Lazio del tuo Re Cecconi e tu di Re Cecconi sai tutto, capisci («io ti capisco») anche il suo profondo dramma umano, della giornata dello scudetto, nella tua prima volta allo stadio, quando sai che Re Cecconi non è pienamente felice (o almeno per te bambino, è così, ne sei convinto, perché i bambini sono convinti) perché sta mandando in serie B il Foggia, e allora non può essere felice: sta vincendo uno scudetto, ma non può essere felice se manda in serie B il Foggia, non può. Battere la propria squadra e mandarla B: dramma umano («io ti capisco, e un po’ guardavo con riprovazione il pubblico festante che invece non capiva il dramma umano»). Il giorno del dramma umano e dello scudetto; di Chinaglia che come sempre «Cecco, tu passami la palla, che se mi passi la palla io faccio gò!»; del chiedersi cosa ci sia di pericoloso nell’andare allo stadio («e quanto più mio padre mi diceva: quelli sono i tifosi più esagitati, tanto più io mi sforzavo di cogliere là in mezzo, tra mille bandiere, gli indizi di un pericolo che nello stesso tempo mi affascinava e mi atterriva»); degli anni Settanta; di una giornata in cui misuri, dentro te – bambino di dieci anni – il peso della gioia e quello del dolore.
[Lo scudetto: http://www.youtube.com/watch?v=-J0A7nQU5q4]

«Ormai siamo d’accordo.
In questa squadra siamo d’accordo che, quando non lo siamo, si comincia a litigare».

Era la Lazio di Maestrelli, un buon padre, il Maestro, che lascia liberi i suoi calciatori, liberi di sentirsi dei figli prediletti (come diceva padre Lisandrini) e, quindi, di litigare, sì, ma di sentirsi, alla fine, fratelli, e fare pace. Piena di fratelli rissosi, di carattere: il Maestro, che non era un mental coach (oggi pare che ne ci sia uno), ma un allenatore e faceva tutto solo, i suoi ragazzi li motivava così: «Chi si astiene dalla lotta… » (come nel film con Alberto Sordi, Il Presidente del Borgorosso Football Club), che non era un motto politicamente corretto, ma efficace, e loro erano veri, così come erano, con Chinaglia (grido di battaglia) che diceva di votare Almirante, ma divideva la sua stanza con Oddi, borgataro e comunista.
Era bella quella Lazio, c’è poco da dire, e chi non l’ha vissuta può solo, anzi deve, farsela raccontare.
Magari da Carlo che, quanto fosse bella quella Lazio, lo sa bene, ma che una mattina scopre, anche, che lui è diventando grande, che il mondo è malato – gli dice il padre –   e che Luciano Re Cecconi è morto, il 19 gennaio 1977: la fine della vita di un ragazzo diventato mito. Un mito di tanti bambini che hanno smesso di essere bambini dopo la morte di Maestrelli e quella assurda di Re Cecconi, l’eroe biancoazzurro che giocava alla morte ed è morto per gioco.
Un mito per quei bambini, ma non solo. Una favola bella e triste, che a un certo punto, nell’oreficeria di Tabocchini, dopo quel colpo di pistola, diventa solo silenzio.




Per uno stupido scherzo Re Cecconi, la famosa mezz’ala della Lazio, ha ieri sera perduto la vita con un proiettile nel petto. Insieme a un compagno di squadra era entrato in una gioielleria nella zona di Corso Francia e, tenendo le mani in tasca, aveva detto la fatidica frase: «Fermi tutti, questa è una rapina». Il proprietario del negozio, già vittima in precedenza di una rapina, ha tirato fuori una pistola e ha fatto fuoco con micidiale precisione, quasi senza guardare. Erano le 19:30: mezz’ora dopo Luciano Re Cecconi è spirato nella sala operatoria dell’Ospedale San Giacomo. Aveva ventinove anni. Due ore dopo, alle 22, lo sparatore è stato arrestato per eccesso di legittima difesa putativa (…).
È entrato scherzando: «Questa è una rapina» -
Il gioiellerie non lo conosceva e ha sparato, «Il messaggero», 19 gennaio 1977.


Questa recensione è uscita il 24/09/2013, qui: http://www.ornitorinconews.it/

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