Cerca nel blog

martedì 12 luglio 2011


La prima regola del Live Kom è che non si parla del Live Kom.
Stadio Olimpico 1 luglio 2011, prima data romana del tour di Vasco Rossi.









Siamo qui, siamo vivi. Sembra nuvoloso, ma ogni tanto esce fuori il sole e allora noi là siamo lì a lessarci, la testa brucia, le spalle iniziano a diventare rosse, già mi prefiguro l’abbronzatura canotta.  In costume al concerto non ci starei, non sono il tipo. Però una delle più belle immagini di donna a un concerto è proprio la ragazza col bikini giallo al minuto “2.36” del video di Under Pressure, dei Queen. Cosa c’entrano i Queen? è il concerto di Vasco, Tama’ concentrati: non fa caldo, non è caldo, si respira a tratti, tutto sommato ce la puoi fare, questa fila prima o poi finirà, entrerai e sul prato del tuo Olimpico (oh, sul prato! Sul prato dell’Olimpico!) ascolterai le canzoni colonna sonora di una marea di momenti, intensi.

Non fa caldo. Io sono qui e vivo come mi pare a me, oh yeah-eh. Ok mi convinco, è passata mezz’ora: sull’Olimpico, sulle statue in marmo bianco volano gabbiani, penso che Lotito potrebbe quasi subire la tentazione di dipingerli, farli volare velocemente e sostituirli a Olimpia che magari gli costa di più, Lotito si sa c’ha il braccino corto e penso: chissà se sta qua, quella macchietta di Presidente. Però non ce lo vedo. Penso che sto pensando una marea di frescacce, che non mi verrebbe mezza freddura, che sarà colpa del caldo. Sicuro. Forse non sono lucidissima, il caldo si sa che non lo reggo, la mia amica a fianco mi fa: «tutto bene?» «Sì, sì come no!», le faccio.
«oh aprono», ogni tanto quell’esclamazione t’apre un mezzo spiraglio, ti mette una speranza. «andre’ me stai a frantuma’» fa una ragazzo al suo amico, non finisce di dirlo che da dietro scavalca la transenna un altro, sui trent’anni, accento napoletano, 1.80 m per 1.50 m: è bello pesante, e poi sulla pancia (c’ha la tartaruga pure lui, tipo quelli palestrati, solo che a lui è una di quelle giganti e al contrario) porta lo zaino, pieno di birre fredde, in tipica posizione da gita-attento-che-te-fregano-il-portafogli. Momento di panico, mentre scavalca, se ci cade addosso ci spiaccica: «Fate spazio a Yuriii!». Atterra. È atterrato. Lo spazio vitale di ognuno diminuisce ma senza danni. Anche se la ragazza e il ragazzo che avevo dietro mi si incollano tipo poster alla schiena. È tutto uno «scusa»/  «no, figurati»; «fatece entra’»/«ma perché non ce fanno entra’».
Alle 4 e mezza, camminando su un tappeto di monnezza fuori dall’Olimpico che manco a Napoli di questi tempacci, entriamo. Nascondiamo i tappi delle bottiglie nei fazzoletti Tempo (tempo di entrare dentro, passare i controlli, poi le riattappo). I tornelli, passo, la borsa (una cosa proprio minima, quando vado ai concerti sto in modalità basso consumo, quasi non esisto, voglio solo stare là) neanche me la guardano anche perché al tipo gli faccio, con due bottigliette piccole stappate in una mano e il biglietto nell’altra: «non ci riesco (ad aprirla)». Lui mi fa passare, entro. Attraverso la Nord e scendo giù verso il prato. La mia amica per guadagnare qualche metro fa: «oh tie’ riprenditi pure quest’altro tappo tuo». Me lo lancia; lo prendo; l’acqua magicamente neanche cade. Sarà la magia dell’Olimpico, sarà che è tutto perfetto così, perché sto per rendere onore a metà della mia anima blasqueena™: la parte blasca è lì perché deve esserci, perché dovevo farlo e poi, a casa mia, nel mio amato Olimpico: Olimpo d’un’infanzia tutta biliardino con gli amici, gavettoni e sfottò laziali-romanisti e italo-francesi (e d’inverno le Barbie, mica posso negarlo). Sarà che è la prima volta che calpesto proprio il prato dell’Olimpico, sarà che chiudo la bottiglia appena mi passa il tappo (‘na volpe, eh!) e il tipo arancione dello staff Vasco mi fa: «signorina, il tappo». Lo guardo con una faccia angelica ma tolgo il tappo sorridendo e me ne vado verso la mia postazione (tanto questa dura poco e l’altra caro mio il tappo ce l’ha: che poi tesoro mio della security con la maglia arancione che pare dell’Anas, ma tu: le hai viste le bottigliette che ‘sti poracci stanno vendendo a due euro, tra un po’ passando sopra il popolo di vasco sdraiato, appollaiato, confuso, sul prato coperto dell’Olimpico? Quelle non so’ bottiglie, eh? La Fanta, la Cerès, la Pepsi che questi vendono è magica? Le bottiglie si disintegrano volando se a qualcuno passa di lanciarle? Misteri, eh? Che poi dico, ma le Bollicine? Ma ce le siamo dimenticate? Ma la Pepsi? La Pepsi da Vasco? E dai, no: «io la Coca-Cola me la porto a scuola». Pensavo che te la portassi pure al concerto. Va beh).


Soddisfatti o rimborsati. Prendo al volo una copia di Satisfiction e appena mi siedo sbircio tra i nomi, vedo se è cambiato qualcuno in redazione, vedo chi ha scritto, chi ha recensito chi. Sono seduta. Sono arrivata. «Siamo da Vasco, finalmente raga’?» ci guardiamo soddisfatti io e i miei amici. E ci troviamo davanti due tipi che saranno sdraiati tutto il tempo (fino alle 20:40) mentre la gente gli passerà sul telo: ora, tu, uomo col maglione incorporato della tua peluria e la fidanzata tascabile, posso capire che ti lamenti quando siamo ancora pochi, posso capire che ti lamenti ancora alle 5, alle 6, alle 7, alle 7 e mezza, alle 8 però inizi a diventa’ pesante: ti alzi?!
No, non s’alzano, loro stanno al mare. Allora fai come vuoi, ma non lamentarti però: ah, Woodstock de noantri con la maglia di Che Guevara, ma l’hai capito che è un concerto di Vasco Rossi, siamo nella prima metà sotto la Sud e abbiamo una superficie 30X30 cm a testa? No, eh? Non l’hai capito. Tu te lamenti.


Pazienza: non l’hai mica capito.
Succede di tutto a un concerto di Vasco prima che inizi, mentre si svolge, a concerto finito. È un piccolo universo, un micromondo in cui il caos regna ovunque e forse per questo la situazione è eccellente. Ci vedi tutti i tipi di persona e le coppie in cui un singolo elemento lo ama, l’altro ama il consorte vaschiano e sta là solo per quello, si vede quando a un certo punto, specie magari dopo che quella dietro di te ha vomitato tutta la sangria che s’era bevuto, giustamente schifato, guarda la moglie come a dire: «ma do’ m’hai portato? E magari a casa mi sgridi se mangio con le mani». Carucci loro due, teneri. Strambi a dire il vero: vestiti uguale (così siamo una cosa sola) lei occhi marroni, una donna sui quaranta (forse di più), ama Vasco, lui no, lo capisci dalla faccia che c’ha. Altri due so’ quarantenni non integrati, di quelli rimasti agli anni novanta con la maglia nei jeans Levi’s: non si può guarda’. Mario s’intrattiene con un tipo bizzarro, la mia amica si guarda intorno, Claudio pensa a Cristina che è rimasta a casa stavolta perché è in arrivo Gabriele (che riceverà un bavaglino souvenir ma a lui di Vasco sicuramente poco gli importerà). Arriva un’altra coppia, lei una tipa molto easy, bella donna, un caratterino. Lui meno bello, ha una faccia che in onore di David Foster Wallace sembra dire: Una cosa divertente che non farò mai più. Mi dà una gomitata e mi fa: «Scusa». «No, figurati», faccio. E la moglie: «Amo’ e se cominci da mo’ a di’ scusa quann’è stasera te s’è seccata ‘a lingua».
Efficace, penso. Mi giro e vedo un tipo che mostra all’amico il libretto universitario, ‘na marea d’esami. L’altro guarda con la faccia di chi non ne fa molti, l’amico illustra, lui si sdraia e la pancia deborda fuori dalla maglia troppo corta e dai pantaloni bassi. Una duna. Poi pischelle, pischelli, ragazzi, ragazze, un uomo che cammina con le mani in tasca esibendo la sua figaggine e così facendo urta tutti, si ferma. Da qui vede bene. Dietro di lui, l’allegra famigliola coi frigoriferi, i piatti de carta, le posate, la pasta fredda: «oh vuoi vede’ che c’hanno pure il dolce?». E infatti ce l’avevano. Tutti li fotografano, so’ assurdi, ma so’ troppo belli. Un gruppo d’amici: hanno dai quaranta ai cinquant’anni e con loro c’è solo un figlio, forse il più piccolo tra tutta la prole del gruppo, forse l’unico, forse l’unico fan di Vasco, sui dodici anni, faccia da duro, biondo, abbronzato, bandana nera. Passa un tipo con accento romagnolo: «siete splendidi, vi posso fare una foto?». Si volta il capotribù: «basta che non me meni!».

La seconda regola del Live Kom è che non si parla del Live Kom: gli idioti. Si menano. No, non loro, non la tribù della pasta e il tipo dalla-romagna-con-furore (che tra l’altro m’ha maciullato un piede ripassando). Ma il tipo che si intratteneva con battute assurde col mio amico poco fa e un ragazzo con la maglia verde: «oh! Se menano!» Ma quelli della security stanno scattando foto e cantando: non l’hai mica capito. «oh l’hai capito che se menano?». Dopo un po’ si muovono. La Santalmassi del TG5 continua a riprendere con la videocamera e non s’accorge di niente, è lei, quella è Silvia Santalmassi che poco prima m’aveva fatto: «oh ma non ce crede nessuno che se ritira?».
Io che m’ero tirata indietro perché cantando avanzavo sempre più e avevo lasciato la borsa dalla mia amica, torno indietro a un certo punto, pensando alla borsa, e pensando che va beh: sto sola, do’ vado? Torno alla base, che credo più tranquilla, e trovo ‘sti tre che se menano. Li separano, si riattaccano. E penso: idioti. Mi scaricano. Ho un crollo. Forse non è tutto perfetto manco per niente. Mi sento improvvisamente stanca.
Polverone, tutto passa. Dura tutto poco. È un attimo. Per fortuna si sono calmati.
Ma io questo mi ricordo? No. È che un fiume di ricordi e ce li ho tutti anche perché ho bevuto solo acqua e non fumo, il cervello funzionava perfettamente ma forse, anche se non sembra, sono una bestia da concerto. Ci sto bene. Si vive. Un concerto rock, e un concerto di Vasco è un attimo zero: in cui tutto accade ma niente accade davvero (meno male, in alcuni casi). È una strana sensazione. E come descriverla? Tu torni a casa con una marea di fotogrammi e gli attimi più belli sono proprio quelli in cui hai spento il cervello (e quelli non li racconti ché sono solo tuoi), o hai smesso almeno di usare solo quello, sono quelli in cui eri là a saltare, cantare, piangere, sono quelli in cui hai ritrovato il senso che avevi perso per strada quando un Vasco, quello del primo maggio del 2009 sfumato all’ultimo minuto, ti era rimasto qui, sì: qui: ecco qui: a metà gola.

«Adesso un fuoriprogramma» dice Vasco dopo aver tirato fuori una scaletta come quella di San Siro: tra le nuove (fatte spesso a metà) e le vecchie, amate, cantate a squarciagola (e squarciacuore) da tutti, emozionandoci e ancora, chiedendoci scusa tra noi per qualche gomitata qua e là, in un momento in cui pensiamo, che sì: ci sono tre che si menano, o c’hanno provato (idioti), c’è quella che ha vomitato e poi ha coperto tutto con Satisfiction e leggo la firma di Scibona su quello schifo venuto da una che non s’è regolata, ma ci sono, ci siamo noi:  siamo solo noi: 65.000 persone che lo amano (in fondo pure i consorti un po’ ingessati si emozionano e cantano alla fine). Siamo qua e abbiamo questa diavolo di passione e penso che, mi regolo, mi freno, è l’unica passione delle mie che ho gestito bene (forse) quella per Vasco, non sono mai stata una fissata (pure se ce l’ho stampato nell’indirizzo e-mail che nessuno capisce), ma io stasera Vasco lo amo. E riguardo la Santalmassi che canta e vorrei dirle, mentre Vasco a volte mi pare stanco, pensieroso: «Silvia ma non è che si ritira davvero?». Insomma ogni tanto penso (pure al concerto di Vasco) e lui fa: adesso un fuoriprogramma e parte Un senso, parte e mi arriva dritto in faccia: qua piango, piango di brutto, sono due anni che la sento poco, perché vuoi per un motivo, vuoi per un altro, qualche ferita se la porta dietro e a volte fa male pure nello spazio privo di emozioni di un i-pod, o di un lettore cd a casa mentre spolveri. Pensa in mezzo a 65.000 come te, cantata da Vasco. Mi asciugo le lacrime, poi vedo che comunque escono ancora, me ne infischio, e canto più forte che posso, divento più alta di venti centimetri forse, urlo, sgomito, canto braccia al cielo ma le mani arrivano più su, le mani di tutti sono altissime e il cielo lo tocchiamo quasi davvero. Ripago un debito con me stessa e penso che tutto questo è perfetto. Che questa serata ha un senso, che questo concerto ha un senso. Che Vasco quando parla lo sento poco, ma quando canta di più, molto di più, e che quest’uomo m’è sempre piaciuto (oddio, alcuni degli ultimi album boh) perché non è snob, perché Vasco Rossi è quello che è, perché qua in mezzo io di snob non ne vedo, perché questa gente non snobba la vita (alcuni se la bruciano, vero). Che questa situazione (questo stare in piedi con quello dietro con la birra alzata mentre canta braccia al cielo: «non me fa le mèches, eh?»), che questa condizione (mascara sciolto, spalle cotte dal sole, lacrime che fanno capolino, corde vocali sofferenti), un senso ce l’ha. Eccome. Penso che oggi, 1 luglio 2011, mi sono ripresa un pezzo. E non voglio più lasciarlo. È la serata perfetta che chiude la settimana di lavoro per la presentazione di Carlo di martedì scorso de La battuta perfetta. E se proprio un senso dovesse mancare, domani o un altro giorno, arriverà.
 Ma… non so, e nella fretta dei tempi per Vox e con la stanchezza sulle spalle, tra sonno e mal di testa, mi chiedo se valga la pena raccontarlo. Se funzioni. Penso a chi leggerà: Tamara sta fuori.
Pazienza, sai quante volte capita, che te lo dicano. Stavolta lo racconto, perché no: non stavo fuori: stavo dentro. Che è quello che conta pure nella vita. Giocarsela. Esserci. Non mancare.  Raccontarlo…, boh: sicuramente meglio di così. Ma ho Fight Club vicino, sono un po’ di giorni che lo rileggo e penso, ora:

Non dici niente perché il Live Kom esiste soltanto nelle ore che vanno tra quando il Live Kom comincia e quando il Live Kom finisce.





Vivere o niente, Vasco Rossi, Capitol, 2011(CD).
Fight Club, Chuck Palahniuk, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2004, pp. 223.
Una cosa divertente che non farò mai più, David Foster Wallace, Minimum Fax, 2010, pp. 164.
La battuta perfetta, Carlo D’Amicis, Minimum Fax, 2010, pp. 362.


 







Tamara Baris

PS Sono stata un po’ ripetitiva in questi ultimi numeri ma è andata così stavolta; in un articolo comparso su Vox due numeri fa, riflettevo sulla guerra Vasco-Ligabue, dicendo che la loro rivalità era nata sul conflitto d’interessi generatosi sulla rivalità/contiguità/continuità insita nel binomio RoxyBar/Bar Mario. Eh, be’: Vasco più o meno a fine concerto ha detto: «Eh, ci vediamo al Roxy Bar, ma quale Roxy Bar? Il Roxy Bar ha chiuso, Red Ronnie è chiuso, ha chiuso… e va beh: ci vediamo da Mario, dai!».
Tutto torna.
E, nonostante le dimissioni annunciate, forse, pure Vasco torna. Forse. (Io però mi dimetto da [scrivente di] rockstar [questo era l’ultimo articolo su Rossi]).










Nessun commento:

Posta un commento