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sabato 25 giugno 2011

Il doppio di nessuno contromano e a ritroso. Hotel a zero stelle di Tommaso Pincio.


Il doppio di nessuno contromano e a ritroso. Hotel a zero stelle di Tommaso Pincio.

 [con-tro-mà-no] o contro mano avv.
• Nella circolazione stradale, in senso inverso a quello indicato dalla segnaletica: andare c.
• a. 1950


Il Contromano di Tommaso Pincio credo possa definirsi uno di quei libri da leggere, che ti fa quasi dire «da leggere assolutamente!», andare contro (contromano?) quelle sane regole di recensore che dovrebbero, invece, impedirti di inanellare giudizi di valore, osservazioni entusiastiche, tic linguistici da pseudocritico onnivoro da narrativese.

È da leggere perché ha il sapore buono dei libri da amare: quelli che ti dipanano le nebbie, che ti annebbiano le certezze, che ti pungono come spilli e ti ricordano che stai sbagliando qualcosa, che dovresti fare diversamente, o che dovresti sospendere il giudizio, oppure che in realtà non dovresti fare proprio nulla, perché tanto niente cambierebbe. I libri sinceri, nel modo in cui un libro deve essere sincero.

È da leggere per chi ha seguito/letto/amato Pincio perché è come se davvero fosse tutto ciò che in qualche modo hai creduto di conoscere di lui/ ti ha colpito/ ti ha rapito, preso da un’altra angolazione. A ritroso e contromano.

Contromano sono mutate le geografie: quello che avevi a destra lo vedi a sinistra: è la stessa strada ma da un altro punto di vista: è lo stesso Pincio ma da un’altra angolazione (tutta nuova, inaspettata): nessuno spazio sfinito, luogo narrativo abusato, in qualsiasi Pincio in cui tu possa andare ti sembra di esserci già stato? No, non è mai lo stesso posto.
Tutta questa strada, contromano, è sorprendente e sorprendentemente bella. Anche perché ci sono tante cose mai dette che forse avevi solo immaginato, ce ne sono altre che ti meravigliano totalmente.

Lo leggi con piacere rintracciando anche impressioni di Tommaso Pincio lette nei suoi articoli per «il manifesto»; o in un racconto de «Il Caffè illustrato», o che hai sentito da lui in qualche incontro (dalla volta a colazione per la consegna di una delle bozze di C. per la tesi; alla giornata mantovana dedicata a DFW): hai quel senso caro di precarietà del “ci sono già stato, essendoci mai stato” (a rigor di logica ci saresti già stato davvero, tu lettore, solo se avessi già letto questo Pincio confezionato da Laterza, invece è la prima volta che lo leggi, questo Pincio. Nessuno esclude che tu non possa tornarci sopra, e molto probabilmente, a fine lettura, lo farai).

Insomma è come se trovasse una casa tutto il Pincio che conosci, come se fosse stato ordinato in un modo originale dalla persona che meglio poteva farlo, dall’unico che poteva farlo: Pincio.

È un Pincio che si ritrova nel momento in cui si ripercorre, anima, e si getta, sempre anima, in mano ai lettori, quando sembra ormai giocare a carte totalmente scoperte, quando più che mai esplicita il gusto del gioco dell’impostura dicendo chiaramente che quel «doppio di nessuno» dichiarato in passato è proprio, a voler essere precisi, anche un «doppio del cazzo»: è lo scrittore che diventa «una sua invenzione, forse i suoi genitali ectoplastici» (dopo aver letto Cinacittà più che mai mi sono tornate alla mente le parole preziose di Giorgio Manganelli e se  di “doppio del ca...” si parlava…), senza mai assurgere al ruolo di colui che sa: Pincio non sa (questo viaggio non avrebbe senso altrimenti), sceglie di essere un doppio insignificante, e non appoggia il partito di chi crede che la letteratura sia la felicità: la letteratura è, invece, il morbo della scrittura (una malattia) da un lato, e  il piacere della lettura (un piacere, questo sì) dall’altro.

(La scrittura di Pincio «è un atto di perversa umiltà»?)


Tommaso (l’incredulo, doppio) Pincio non si sogna di dare/dire verità incontrovertibili ma si perde lucidamente in questo cammino verso un ideale paradiso attraversando i maestri incontrati, quelli coi quali s’è scontrato, quelli che t’arrivano nella vita e diventano maestri senza che tu batta un ciglio, senza che tu voglia o te ne renda conto, perché un maestro in fondo è chi ti aiuta a svelare te stesso, chi ti insegna cose che hai già dentro. Chi ti influenza o meglio, come scrive Pincio, ti autorizza a una «riappropriazione debita».

Pincio nel suo libro procede col suo periodare di sempre, con le interrogative retoriche, con quel piglio metatestuale con cui da sempre si è rivolto al lettore: l’immagine della sua voce appare riconoscibile, è lui: col recupero snobistico di forme arcaiche o letterarie, con parole-tipo-pincio, con la voce altra che lo contraddistingue, voce che Daniele Giglioli su «Alias» qualche sabato ha definito «inevitabilmente aliena, un po' remota, sempre in leggero fuori sincro».
La sua prosa è quella di uno scrittore (nel vero senso della parola) e in Hotel a zero stelle ti racconta, in un modo completamente nuovo, qualcosa che forse ti ha già detto; è lui, che se pure in realtà non vuole insegnare, che anche se «non sa», regala un cammino di conquista di umanità e che se, anche se la letteratura non è la vita (come arriva a ribadire lui stesso in maniera netta «o scrivi o vivi») anche se la letteratura non è la felicità, è invece proprio quel piacere della lettura, di cui pure parla lo scrittore.

E, in questa lettura, un piacere progressivo: a piccole dosi, in ogni tappa, in ogni stanza di questo cammino: dal suo essere bambino; pensare da artista-esserlo; fino all’«epilogo in forma di epitaffio» che conclude la storia. 

In fondo è un cammino,  «il mito della conquista di sé», un viaggio, il viaggio di uno scrittore. Gli scrittori viaggiano anche da fermi, vero, ma a dire il vero Pincio s’è mosso sul serio e questo, di viaggio, parte da una bettola a zero stelle: da un luogo chiuso da cui voler/dover uscire per poter riveder le stelle: «here no star. If you want the stars go to the sky».

Perché un albergo? Perché  (lo ribadisce più volte con una serie di attacchi formulari nell’incipit) è fondamentalmente un luogo precario in cui (non)esistere: un luogo ideale (come e perché gli alberghi  siano giunti a essere definiti il luogo ideale ce lo spiega chiaramente).

E attraverso le stanze di questo albergo ideale interpreta un classico: la fuga da sé stessi, con la sapienza di chi ha, da sempre, un debole per le parole.
Dalla gustosa selva oscura rappresentata dal primo piano (l’incontro con la menzogna); passando per l’inferno del suo secondo piano, con lo spettro del fallimento; arrivando al terzo, il purgatorio, che si apre con un significativo «ognuno si acconcia le cose come più gli conviene» e rappresenta un momento in cui anche Pincio «ha uno straccio di illuminazione».
L’illuminazione riguarda la realtà, l’idea di realtà che abbiamo, il «dramma dell’impostura», l’idea di noi stessi. Il capire e il capire che capire non serve a niente.

Stupendo il purgatorio di Pincio: il ripercorrere Dick, Landolfi, Melville.
Si arriva al quarto stadio: il Paradiso. È davvero un cammino, ripeto non parlo di viaggi a lieto fine o di felicità, ma è un cammino per il lettore, è il cammino del piacere della lettura: Pincio riesce a sorprendere, a raccontare: cosa ci racconta, come ce lo racconta: è un libro che ti prende per la forma e per il contenuto. Per un mettersi a nudo, spogliando anche i maestri incontrati: ancora: Marquez, Burroughs, Orwell.
Proprio nella stanza di Orwell Pincio si mette definitivamente a nudo, non dico per quello che è, ma per quello che vuole essere: «un doppio del ca**o», si diceva.

Pincio si libera del nome e riflette e spiega anche qui, come altrove e precedentemente nel suo lavoro, al lettore fatti, spunti, idee, avvalorando le ipotesi che un lettore attento poteva aver già formulato senza il suo (prezioso) aiuto (l’attenzione onomastica, le riflessioni metaonomastiche negli altri romanzi).
O, ancora, sorprende con aneddoti e con la sua, unica, capacità di raccontare, che è quello che è diventato. Un rumore sottile quello della sua prosa? No, un «rumore muto, un’entità impalpabile ma presente che vaga di scatola cranica in scatola cranica, rimbombando nel cervello della gente».

La sconcia impostura.
La doppiezza.

Del resto, Tommaso Pincio apre il suo “Epilogo in forma di epitaffio” dicendo: «Alla fine pur seguitando a scrivere sono tornato a dipingere».  

Tamara Baris

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Tommaso Pincio, Hotel a zero stelle, Inferni e paradisi di uno scrittore senza fissa dimora, pp.236, Contromano Laterza, 12 euro, 2011.

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